I settantacinque minuti di Monumental della compagnia Holy Body Tattoo, musicati dal collettivo, che non ama farsi definire post-rock, i GodSpeed You! Black Emperor, sono stati incisivi quanto il discorso sul progresso e lo sviluppo di Pasolini. Una fluida, per quanto frenetica ed emblematica rappresentazione della condizione dell’uomo digitale ormai piegato al meccanismo seriale della ripetizione compulsiva è andata in scena ieri all’Auditorium della Conciliazione per il Romaeuropa Festival.
È uno spettacolo che milita contro il capitalismo digitale e la sua “monumentale alienazione che si esprime nelle piccole cose e nel modo in cui i nostri movimenti quotidiani sono stati alterati”, si legge nell’intervista del Romaeuropa alla compagnia canadese. Una percezione da sempre condivisa dai GY!BE considerati degli anarchici e quasi dei terroristi dall’FBI che nel 2003 li aveva fermati in un autogrill dell’Oklahoma durante il loro tour americano. Il materiale antigovernativo che avevano nel furgone non era però stato sufficiente a convalidare la paranoia del commesso della stazione di servizio che li aveva scambiati per terroristi.
Paranoia, ansia, disturbi ossessivo compulsivi come il tirarsi spasmodicamente i capelli, o ripetere determinati gesti fino alla demenza: è questa la diagnosi dell’uomo del mondo capitalistico secondo le coreografie di Noam Gagnon e Dana Gingras. La prima versione dello spettacolo, presentata la prima volta nel 2005, non prevedeva il supporto live dei GY!BE che tornarono nel 2010 e rividero completamente i pezzi presenti nello spettacolo, aggiungendo nuove musiche, brani più recenti e nuove sezioni di tamburi, e lavorando a stretto contatto con la compagnia di Vancouver.
Undici performer immobili su dei piedistalli come il Discobolo di Mirone, colti nella posa prima dell’azione, mentre il collettivo canadese inizia la sua follia drone annunciandoci che quei danzatori rimarranno immobili ancora per poco. “Certi giorni ti svegli e inizi subito a preoccuparti. Non c’è niente in particolare che non vada, eppure sospetti che le forze si stiano cautamente allineando e che ci siano guai all’orizzonte”, le parole della serie Living di Jenny Holzer che arrivano proiettate sul muro trasparente che separa gli altri due elementi drammatici dello spettacolo, il suono e la danza.
“È saggio stare all’erta sei sempre circondata da gente costretta a essere gentile nei tuoi confronti. La cosa migliore è stare nel gruppo mantenendo l’anonimato” e ripetere simultaneamente gli stessi gesti, cercando di non dare troppo nell’occhio. Ma i tic si moltiplicano fino al parossismo dell’implosione emotiva che diventa evidente. Psicosi monumental(i) nei gesti dei danzatori, nei crescendo noise dei GY!BE e nelle parole della Holzer che arrivano come dei verdetti ineluttabili. Dei corpi coperti da abiti da ufficio che ripetono le stesse azioni sopra il proprio piedistallo, un blocco rettangolare retroilluminato da cui ogni ballerino non riesce a scendere finché non raggiunge finalmente il contatto con la persona che ha accanto.
Monumental è una diagnosi dell’uomo del mondo capitalistico
E allora cambia tutto, cambiano i movimenti, si fanno fluidi come le musiche, in una tensione “joyfull”, come la definiscono i Godspeed, e a poco a poco gli attori-danzatori, intesi alla maniera della Bausch, si ricordano d’essere analogici, umani: “La bocca è interessante perché è una di quelle parti in cui un esterno asciutto si muove verso un interno umido”. Si incontrano, si giocano, si dissociano dallo schema del piedistallo, immobile, fisso, per potersi sentire, per creare disordine, per liberarsi dai movimenti contratti e contenuti. I due coreografi di monumental sono famosi per spingere i propri performer oltre i limiti della mobilità e, come Jan Fabre, credono che solo così possano esprimersi sinceramente. Il gruppo si muove ora come un branco, compatto, e i GY!BE proseguono verso un climax di archi e tamburi. Ma è un branco ancora acerbo, qualcuno cede e come un domino in reverse riporta tutti alla condizione iniziale dello spasmo della psiche repressa.
Su quel muro di scritte della Holzer, delle immagini in time-lapse di flussi di fari sulle autostrade sembrano ancora più ridicole degli stessi perfomer che mimano la guida di un’automobile. I personaggi non si liberano mai completamente, c’è sempre un’insicurezza che riaffiora e aleggia la mente come uno zombie, lenta e ormai indistruttibile. La paranoia è un po’ uno zombie: credi d’averla soppressa e invece ti arriva da dietro lenta e inesorabile. “Ci vuole un po’ per passare sopra i corpi inerti e proseguire nei propri intenti”.
Le sequenze, invece, sono rapide, per questo lo spettacolo scorre via senza appesantirti, ha una sua dinamica fatta di passaggi contrastanti, di musiche che sembrano annunciare l’apocalisse che diventano altre che suggeriscono la capacità dell’uomo di sopravvivere, con la solennità di Morricone. La storia si risolverà in un modo o nell’altro. Gli attori dei non-luoghi sceglieranno una vita più terrena che satellitare? Siamo degli esseri finiti e la nostra estensione digitale, che rischia di diventare un loop che si rigenera infinite volte, non fa che dissolverci?
Certo è che la parodia del pubblico osservante si fa palese quando la compagnia s’avvicina al proscenio e scrutandoci, ripete quei gesti che non ci sembravano così malati prima della loro rappresentazione, tra cui quello di scattarsi selfie di gruppo, mentre i GY!BE sono chini sulle pedaliere e da lì a poco si dissolveranno magicamente da quel podio alto sopra i performer. La Holy Body Tattoo rimarrà sorpresa (o forse no?) quando durante gli applausi del pubblico si girerà nel ringraziare i Godspeed assenti. Come se per i musicisti di Montreal quello spettacolo fosse un gesto di solidarietà verso un’umanità errante e che la patetica gratitudine sia inutile rispetto al dramma?