I migliori album degli anni Novanta, dal 80 al 61 | Rolling Stone Italia
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I migliori album degli anni Novanta, dal 80 al 61

La classifica dei migliori album del decennio secondo Rolling Stone America

I migliori album degli anni Novanta, dal 80 al 61

80. THE BREEDERS
Last Splash
4AD/Elektra, 1993


Kim Deal dei Pixies ha eclissato la sua band, anche se solo per un album, con canzoni potenti che parlano di estate, sesso e rock&roll, con in più sua sorella gemella Kelley alla chitarra. Cannonball è l’attacco a tradimento alt-rock più riuscito alle radio americane.

79. GUIDED BY VOICES
Bee Thousand
Scat, 1994


I sei album precedenti dei Guided by Voice (pubblicati in edizione limitata su minuscole etichette indie) erano geniali, ma Bee Thousand è il tour de force di un geniale gruppo vecchio stile di musica americana che nasce nelle cantine. I Guided by Voices sono un collettivo di circa 30 persone provenienti da Dayton, Ohio, che scavano in un territorio familiare: rock inglese classico alla Who, Beatles e Kinks, filtrato con beatlemaniaci di seconda generazione come Cheap Trick e Robyn Hitchcock e avatar della scena Lo-fi come Daniel Johnston e Pavement. Registrato con un quattro tracce, Bee Thousand suona come uno dei vostri bootleg preferiti o un adorato vecchio LP, ma la produzione casalinga non fa che sottolineare la forza delle canzoni. Lo-fi o no, non si può negare la stupefacente gloria guitar-pop di pezzi come Tractor Rape Chain.

78. OASIS
Definitely Maybe
Epic, 1994


Mentre le band americane si tormentano a causa del successo e della fama, gli Oasis cantano: “Stanotte, sono una rock&roll star”. Il titolo è l’unica cosa incerta di questo disco di debutto, per il resto è tutto uno sfoggio di chitarre muscolose, ritornelli retro e arroganza. “Puoi avere tutto / Ma quanto ne vuoi?”, si chiedono i fratelli Gallagher in Supersonic e la risposta è: fottutamente tanto. Le hit sono arrivate dopo, ma è con questo disco che gli Oasis hanno gettato le basi per la vittoria nella guerra per riportare il rock inglese sul trono.

77. NEIL YOUNG AND CRAZY HORSE
Ragged Glory
Reprise, 1990


Neil Young rimette insieme i Crazy Horse, accende gli amplificatori, si guarda indietro e controlla se qualcosa del suo passato è rimasto in piedi. Ci sono pezzi che trasudano sangue (Love to Burn), ma altri come Mansion on the Hill rivisitano l’epoca di pace, amore e spirito hippy con un sentimentalismo che raramente Neil ha concesso a se stesso.
Ma la storia più importante la fanno gli assoli di chitarra, strazianti e gloriosi, che trasformano questo girarsi indietro in uno sguardo avanti: la raffica di chitarre grunge è dietro l’angolo. Presto Neil Young porterà i Sonic Youth in tour e farà un disco con i Pearl Jam.

76. THE ROLLING STONES
Bridges to Babylon
Virgin, 1997


Forse è il campionamento di Biz Markie a suggerire che gli Stones hanno ritrovato vigore in Bridges to Babylon. È stato Mick, affascinato da Odelay di Beck, a scegliere produttori appassionati di sampling. Non mancano i pezzi rock (Flip the Switch) e le ballad (Already Over Me), ma in generale sembrano rivitalizzati, dal reggae di Keith in You Don’t Have to Mean It al manifesto edonista di Jagger Saint of Me. Un ponte verso il XXI secolo? Per gli Stones, Bridges è anche un buon posto dove stare.

75. BELLE AND SEBASTIAN
If You’re Feeling Sinister
The Enclave, 1996


Una band di multistrumentisti scozzesi che rappresentano il trionfo del “twee”, un sottogenere indie-pop, che applica lo stile rock a cose assolutamente non rock come il coffeehouse folk, il pop anni ’60 francese o le opere di Burt Bacharach. Guidati in modo informale da un ex chierichetto e fan degli Smiths, Stuart Murdoch, i Belle and Sebastian attaccano violoncello, archi e trombe a un ritmo skiffle e scrivono melodie graziose su notti passate da soli ad ascoltare la top 40 delle radio vintage e curiosità verso la bisessualità. Era dai tempi di Nick Drake che non si vedeva una band così tranquilla parlare a voce così alta.

74. RAGE AGAINST THE MACHINE
The Battle of Los Angeles
Epic, 1999


I primi due dischi dei Rage Against the Machine suonano meglio di quanto facevano al tempo, ora che sappiamo che stavano portando a qualcos’altro. Sicuramente, però, non urlano e non smuovono come The Battle of Los Angeles. Tom Morello è il chitarrista metal più avventuroso dai tempi di Eddie Vedder e il suo suono esplosivo in pezzi come Born of a Broken Man, Ashes in the Fall e War Within a Breath romba come il Crosstown Traffic di Hendrix passato attraverso un turntable. Zack de la Rocha ha capito come farsi sentire con la sua voce minacciosa, mentre Tim Commerford e Brad Wilk sono lì apposta a gonfiare i muscoli. Il risultato cattura i Rage Against the Machine nel pieno della loro ferocia da stadio, mentre sparano la loro giusta propaganda dal palco fino ai posti più economici. Con The Battle of Los Angeles i Rage spingono il loro messaggio molto più lontano di quanto persino i Clash pensavano fosse possibile.

73. MISSY ELLIOTT
Supa Dupa Fly
Elektra, 1997


Missy, la “Don” di Virginia Beach, reclama l’hip hop e l’R&B come il suo territorio con un atteggiamento ambizioso. Ha tutto quello che serve: talento compositivo e una voce che trasuda soul, sia che rappi o che canti, e il nome più figo in circolazione. Ha anche Timbaland e il suo funky innovativo che fa muovere la gente. Insieme conquistano il mondo con The Rain, trasformando un sample della cantante soul anni ’70 Ann Peebles in una nave interstellare. Missy avanza spedita attraverso jam come Sock It 2 Me, butta dentro le parole “beep beep” ogni volta che può e, in generale, fa rombare il suo motore.

72. THE CHEMICAL BROTHERS
Dig Your Own Hole
Astralwerks, 1997


Con la fusione di funk martellante, effetti dub distorti e urla strazianti di Block Rockin’ Beats, i Chemical Brothers Tom Rowlands e Ed Simons creano la Whole Lotta Love della “sampledelia” anni ’90, un pezzo che diventa un vero e proprio mostro della club culture con le sue viscere rock&roll e il suo movimento sinfonico. Nel resto di Dig Your Own Hole i due dj inglesi dimostrano che: a) suonare i dischi di altri, tagliuzzati, fatti a pezzi e riconfigurati ingegnosamente sotto forma di beat è una valida forma di composizione musicale; b) la musica dance è un fatto di mente, ma anche di corpo.

71. DJ SHADOW
Endtroducing …
Mo’ Wax, 1996


DJ Shadow è lo scienziato pazzo che non esce molto spesso dal suo laboratorio, ed Endtroducing è il ricablaggio del suono Mo’Wax che lui stesso ha contribuito a creare. Questa etichetta dance inglese ha creato delle star mettendo insieme sequenze innumerabili di sample ed effetti speciali in un miscuglio ipnotico di beat allucinogeni, e tra queste star DJ Shadow era il più grande. L’età distopica di Endtroducing sembra un’astronave aliena che atterra sull’autostrada a notte fonda, probabilmente per andare a frugare tra gli scaffali di vinili usati. Il fatto che DJ Shadow abbia provocato la nascita di migliaia di imitatori patetici non impedisce a groove come Building Steam With a Grain of Salt di suonare alla grande. Un disco che rappresenta la Dj Culture al suo massimo livello: con i piedi piantati nel passato ma lanciata verso il futuro e l’era spaziale.

70. TRICKY
Maxinquaye
Island, 1995


Uscito dai pionieri trip-hop Massive Attack, Tricky accende la sua personale miscela di dub giamaicano, rumore industriale post-punk e hip hop vintage dai project del Bronx e soffia il fumo sul dancefloor. Un suono maturo, con un senso di apocalisse incombente e pieno di soul da battaglia (il vigore della vocalist Martina Topley-Bird e il mormorio gangsta di Tricky) fanno di Maxinquaye la controparte anni ’90 del black power dei Public Enemy anni ’80: ritmi voodoo e un cocktail guerrigliero che celebra la sopravvivenza dei più forti e l’inevitabile vittoria dei giusti.

69. WYCLEF JEAN
The Carnival
Ruffhouse/Columbia, 1997


Ai tempi in cui i Fugees vendevano più copie di The Score di quante paia di scarpe vendesse la Nike, Wyclef Jean era uno dei due tizi che accompagnavano la favolosa Lauryn Hill. Con The Carnival dimostra di essere un talento, un rampollo di Bob Marley e dei De La Soul che rima in patois haitiano, campiona Stayin’ Alive dei Bee Gees e dedica una canzone “a tutte le ragazze che ho tradito”. Prende in giro le regole dell’hip hop e anche se stesso, sfoggiando una produzione di alto livello, senza contare l’immaginazione, l’ambizione e il coraggio. Wyclef è quella cosa rara e necessaria: il clown geniale.

68. R.E.M.
Out of Time
Warner Bros., 1991


Registrato subito dopo Green, il nuovo Out of Time è un esercizio di umiltà folk-pop, che finisce per far diventare i R.E.M. più grandi che mai. Dietro alla malinconia apparente (simboleggiata dal suono del mandolino di Peter Buck), Out of Time è grandioso e positivo, con una scrittura a colpo sicuro. In Losing My Religion, Low e Country Feedback, Michael Stipe canta non solo di aver perso la fede, ma anche di ritrovare lentamente equilibrio e stabilità. E poi c’è il sorriso di Near Wild Heaven e Me in Honey, perché la redenzione è sempre una buona scusa per ballare.

67. THE COUNTING CROWS
August and Everything After
DGC, 1993


Canzoni intime e costruite con cura che esplodono all’impatto con la terra. Prodotto da T Bone Burnett, August and Everything After è il disco che combina la desolazione post-punk con le influenze old school, diventando nel tempo uno di quei rari album apprezzati sia dagli alternativi che dai fan del classic rock. Certo, si sente che i Crows vogliono disperatamente essere come Van Morrison, The Band, i R.E.M. e persino Bob Dylan, ma questo non rovina l’ispirazione sublime di pezzi come Rain King o Murder of One.

66. THE NOTORIOUS B.I.G.
Life After Death
Bad Boy/Arista, 1997


Sesso, spaccio e non provate a fottermi: ecco i temi centrali del doppio album di B.I.G. Voce potente, flow leggero, difetto di pronuncia e quei racconti così precisi che sembra di vedere i proiettili che volano. Rimando su un funk melodico, il n.1 di di Brooklyn fa un disco che sembra fatto a L.A., con tanto di omaggio alla Città degli Angeli. Going Back to Cali è un contrasto da brividi con gli ultimi tre pezzi dedicati alla rivalità con la Death Row, che perseguiterà Biggie nel suo ultimo anno di vita.

65. ERYKAH BADU
Baduizm
Kedar Entertainment/Universal, 1997


Una voce che ha il potere di paralizzarti. Ricorda un po’ Billie Holiday, certo, perché viene dal fondo della gola e ti buca le orecchie, ma non è solo quello. È che la musica è hip hop, R&B e jazz ultracontemporaneo, ma la voce suona antica, e a metà tra la raffinatezza del Nord e il calore del Sud. È la voce di Erykah Badu, da Brooklyn via Dallas, con la testa fasciata, che canta di filosofia e soddisfazione di amori non corrisposti in una prossima vita. È la sorella musicale di D’Angelo e Lauryn Hill, la Madre Terra del soul bohémien anni ’90.

64. SINEAD O’ CONNOR
I Do Not Want What I Haven’t Got
Ensign/Chrysalis, 1990


Tutto quello che il festival al femminile Lilith Fair ha reso trendy alla fine degli anni ’90 era già in questo album: introspezione, empatia, musica innovativa, ma accessibile e, soprattutto, una voce inequivocabile. Tra le melodie New Wave, l’amore di Sinéad per la musica nera è evidente, in particolare nel pezzo di Prince Nothing Compares To U. Ma più di ogni altra cosa, questo è un disco audace: Sinéad canta delle sue debolezze e di Dio, contraddicendo le regole del rock che vogliono solo tipe dure.

63. MARY J BLIGE
My Life
Uptown/MCA, 1994


Tecnicamente è una cantante con capacità sopra alla media, ma soprattutto questa ragazza cresciuta nei project di Yonkers è una donna come tutte le altre, con le sue croci da portare, ma una capacità sovrumana di farsi sentire dagli altri e di condividere la sua vita con il pubblico. Nel suo secondo album Mary J. Blige mostra di avere la dote rara di riversare il proprio cuore in una registrazione; aiutata da Sean “Puff Daddy” Combs, canta pezzi suoi e cover di classici di Barry White, Curtis Mayfield e Roy Ayers (My Life), mostrando la sua lotta quotidiana per amare se stessa e, come dice nel singolo, per essere semplicemente felice. Un album sottilmente autobiografico, che ha il potere di farla diventare una megastar e cristallizza l’emergente movimento hip hop soul, che ci darà in futuro cantanti del calibro di Lauryn Hill e Beyoncé.

62. RAEKWON
Only Built 4 Cuban Linx...
Loud/RCA, 1995


Only Built 4 Cuban Linx… è l’album che segna l’apoteosi della dinastia Wu Tang, alimentato dalla produzione iperdilatata di RZA, spettacolare e inquietante allo stesso tempo, dagli accoppiamenti verbali di Raekwon (i testi sono così densi da richiedere la stele di Rosetta di Staten Island per essere capiti) e il supporto geniale di Ghostface Killah. Raekwon viene fuori come il cervello criminale cool, mentre dalle casse esplode il personaggio esagerato di Ghostface, che finalmente ha la possibilità di far sentire a tutti il suo stile al microfono (presto farà degli ottimi album solisti). I sogni alla Tony Montana di giovani uomini neri non sono mai stati raccontati con così tanta precisione, poesia e pathos.

61. U2
Zooropa
Island, 1993


Dopo lo sconvolgente Achtung Baby, Zooropa raffina ulteriormente i nuovi U2. Hanno già dimostrato di essere la band di superstar che si è coraggiosamente reinventata nel suo ottavo disco scambiando le chitarre per i riff funky e una produzione a metà tra hip hop e industrial, il lamento per un insinuante cantare parlato, la febbre per il caldo bollente. Il nono album di Bono e soci, Zooropa, enfatizza questo cambio: invece del mitico paesaggio desertico di The Joshua Tree, in copertina c’è un frame video decostruito e, al posto della ricerca spirituale di I Still Haven’t Found What I’m Looking For, c’è la riflessione monocromatica e senza via di uscita di Numb.