I Royal Bravada nascono a Monza nel 2000 e, dopo un disco e un EP, sono approdati nella terra del Sol Levante per un piccolo tour. Ecco il loro reportage dell’esperienza, tra precisione maniacale, fan timidi e prodigi della chitarra esperti di pesce. La band adesso è tornata in patria e si esibirà in giro per il paese a partire dal 13 maggio.
Cominciamo dai locali. Il più piccolo con capienza 50/70 persone, il più grande con capienza 300 ma tutti con una potenza audio inverosimile per l’Italia e per l’Europa. I classici impianti che in Italia vediamo ai festival all’aperto qui sono installati in sotterranei da 200mq… una pazzia e una goduria allo stesso tempo.
Ogni sera si esibiscono dalle 4 alle 6 band. Il soundcheck: 20 minuti testa. La mattina della prima data (Live Freak di Shinjuko) ci comunicano che abbiamo solo 20 minuti testa di soundcheck. Ci allarmiamo, poi arriva il nostro turno ed tutto diventa chiaro: fonico resident e aiuto palco preparatissimi, a completa disposizione nostra e del nostro caro fonico italiano Mitch, strumentazione pro e vera organizzazione giapponese. In 5 minuti, stage plan alla mano, i ragazzi del locale predispongono ampli, girano batteria (Valeriano è mancino) e microfonano il tutto. 10 minuti e Mitch fa suoni e monitor, e infine gli ultimi 5 in cui suoniamo un pezzo completo e prendiamo confidenza con il palco. Bellissimo.
La differenze culturali tra italiani e giapponesi sono radicali. Appena arrivati a Tokyo ci ha subito colpito il silenzio. Migliaia e miglia di persone, macchine, taxi, locali, ristoranti… ma c’è sempre silenzio. Le persone tra di loro parlano a bassa voce, quando succede, perché parlano molto poco! Questo si riflette nel modo in cui vivono e si rapportano agli altri.
Per quanto riguarda la parte tecnica ci siamo meravigliati di come fosse tutto perfetto. Mai viste delle time-line rispettate al minuto, gli addetti ai lavori numerosi e precisissimi: fonico resident, responsabile luci, uno o due tecnici da palco.
Il pubblico, invece, almeno inizialmente è stato un gran problema. A Tokyo le band per contratto sono obbligate a portare al live un numero di persone pattuite con il promoter, e se i patti non vengono rispettati non solo non si viene pagati ma si deve dare persino la differenza. Considerando che il prezzo d’ingresso per un live si aggira intorno ai 30 euro, drink esclusi, si parla di parecchi soldi. Ci siamo quindi dovuti attivare.
Abbiamo cominciato a fare la nostra promozione per strada, nei bar, nei ristoranti, nei negozi… ci siamo dovuti conquistare il nostro pubblico serata dopo serata. Morale della favola: ha funzionato! Dopo un primo approccio un po’ “difficile” (i giapponesi sono timidi e introversi) il nostro pubblico è cresciuto esponenzialmente. Formare una fanbase in Giappone è più facile che farlo a Milano. La gente lì ha sicuramente più voglia di ascoltare.
Abbiamo scoperto che il giapponese medio davanti a un palco si emoziona all’inverosimile. La cosa assurda è che fanno di tutto pur di non darlo a vedere. Beh, probabilmente non avevano idea che si sarebbero trovati di fronte una band italiana che ha fatto del coinvolgimento del pubblico e dell’energia sul palco il proprio marchio di fabbrica.
L’iter è stato sempre lo stesso: inizio serata tutti in fondo alla sala, concentratissimi sulla musica e sulla band… per finire a saltare sotto palco e a chiedere le foto. Questo aspetto è stato sicuramente una delle soddisfazioni più grandi del tour, vedere il pubblico coinvolto che si affeziona alla tua musica e a te. Allo stesso modo è stato incredibile scoprire come diverse persone, dopo averci visto la prima volta, si siano ripresentate puntuali ai concerti seguenti.
In molti ci hanno chiesto di autografare i dischi. Il migliore, però, è stato un musicista nel camerino dello Zirco che a fine live ha proposto a Luke di provare i suoi zoccoli giapponesi in legno alti 10 cm. Ci teneva proprio.
Un altro aspetto positivo è il rapporto che s’instaura con le band con cui condividi il palco: non esiste competizione. Alcuni gruppi con cui abbiamo suonato sono tornate nei giorni successivi per ascoltarci di nuovo. Il livello musicale, poi, è davvero altissimo. A scuola i ragazzi sono obbligati a studiare musica e la maggior parte di loro sceglie uno strumento “rock”. Abbiamo avuto l’onore di ascoltare dal vivo dei prodigi che alternavano diversi generi: dal rock classico a quello più alternative, dal metal al power pop, dall’elettronica allo shoegaze.
Ultimo concerto, l’adrenalina comincia a scemare mentre – a mezzanotte circa – saliamo sul palco al buio per raccogliere gli strumenti. Arriva un buon vecchio fan giapponese con il suo cappello da cowboy a darci la carica. Si ferma davanti al palco e grida: «Tony… cazzo duro!», le uniche tre parole che conosceva in Italiano. Indimenticabile.