Parcheggio dritto nel cuore della notte. Non c’è praticamente nessuno, fuori dal Magnolia, ma avere paura di arrivare tardi è meglio che arrivare tardi. Da un furgone bianco esce un ragazzo con un pentagramma metallico di piercing sulle labbra, è simpatico e lo invito sulla mia macchina che ha il riscaldamento acceso. Mi offre una birra che apro con l’accendino e gli chiedo subito dei The Vibrators.
Mi racconta il loro punk severo, duro, autentico. Mi dice che i Vibrators s’ispirano ai Sex Pistols, ai Clash, e che sul palco non si risparmiano. Entro nella nebbia.
Suoniamo solo per la sensazione che ti dà stare sul palco
Pochi minuti dopo siamo davanti ai The Vibratros, eroi del punk che nella loro carriera hanno incrociato strade e armonie con David Bowie e Iggy Pop. Dopo i primi pezzi, già, la forza ritmica della band sembra spaccare il palco, è elettrica e non elettronica, ipnotica senza assopire, e metallica senza rintronare… squarciano ogni “blur”: spazzano via ogni bruma.
Da Baby Baby in avanti è punk puro, infarcito di pezzi come Pure mania e We vibe. Perché qualcosa sembri semplice, diretto, fruibile, dev’esserci sotto un lavoro complesso.
Ascolta “Baby Baby”:
Dai primi minuti avevo iniziato a guardare il palco da diverse angolazioni: cercavo altri elementi in aggiunta al gruppo, o magari dei turnisti avvolti nel fumo, semi-nascosti dalle quinte, perché il suono era così pieno che avevo pensato almeno a un altro chitarrista: playing with ghosts, suonando con i fantasmi, se i Placebo mi concedono la figura retorica!
Ho avuto modo di entrare nel camerino del Magnolia con la band, un piccolo bugigattolo dove i musicisti rimestano le idee prima di fare il soundcheck: sono spartani, questi inglesi, onesti, asciutti. Fottutamente coerenti!
Dopo il concerto ho fatto due chiacchiere con Eddy e con Pete, mentre il bassista Darryll Bath era altrove. Quando chiedo di raccontarmi com’è stare sul palco, infatti, rispondono che «è divertente», che «sta tutto in quello, si suona per quella sensazione». «È stancante, richiede fatica ma vale a pena!», dice Eddy, «Bisogna fare dei sacrifici, mangiare e bere poco e bene, dormire a sufficienza».Tutte cose che non ti aspetteresti da un rocker, ma tutte cose che lo preservano, in ogni caso.
Ascolta “Pure Mania”:
Mentre Eddy racconta che ha fondato la band 39 anni fa, gli domando come si prepara un concerto, e lui, sempre senza sorridere, serioso ma gentile: «È come creare un gioco, bisogna divertire e divertirsi».
Com’è la vostra vita oggi, per chi suonate? Risponde Pete: «A noi fare musica insieme piace sempre come agli inizi! I dischi sono per i posteri: assicurati sempre di avere un pubblico per cui suonare!». I tatuaggi di Pete Honkamaki – si parla di questo, ora! – sono della vecchia scuola, intendo la scuola del simbolismo classico del ‘900: rozzi, poco accurati, pieni, linee spesse e imprecise e molto colore. Sanno di rock sudato e di piccoli camerini, ma anche di gloria e di stadi, di pubblico acclamante ed estasiato, violento anche, nel pogo.
È punk vero, quel punk per cui non bastavano due trecce o un taglio di capelli a cresta, o, se fosse oggi, un ciuffo beatnik, il gel e una camicia a scacchi, per andare contro, contro tutto e tutti, tranne i fratelli. Non bastava suonare in bar decadenti o a festival di nicchia, no. Bisognava crederci.