Una profezia rovesciata, quella del Punk: il sistema ha trasformato il suo proclama nichilista “No Future” in uno stereotipo estetico sartoriale senza fine. Ribellarsi non basta mai. Spille da balia, creste da nativi d’America Mohawk, pallori da film dell’orrore, trucchi esagerati tra quello di Nefertiti e quello del teatro Kabuki, jeans strappati e borchie: in risposta al ’68, le metropoli del mondo andavano popolandosi di giovani che, radicalmente contrari al capitalismo crescente, volevano rappresentare esattamente la disillusione, l’implosione degli ideali romantici e utopistici, la presa di coscienza del fallimento ideologico, l’impossibilità di ipotizzare un cambiamento se non andando contro tutto e tutti.
La maleducazione e l’irriverenza ne erano i presupposti. La nascita della moda punk viene convenzionalmente attribuita a Vivienne Westwood, che resta ancora oggi coerentemente fedele ai principi più nobili ed etici del punk. A quei tempi lavorava con il suo boyfriend Malcolm McLaren, manager dei Sex Pistols. Aveva un negozio al 430 di King’s Road che si chiamava Sex (il cui claim era “Specialists in rubberwear, glamourwear and stagewear”). La straripante collaborazione, alimentata dal vorticoso fermento linguistico-musical-creativo del momento – ricordiamo Richard Hell e i Neon Boys, la proto-punk band newyorkese nata nei primi anni ’70, ma anche altri progenitori, come Lou Reed, David Bowie, Iggy Pop o Alice Cooper – diede vita allo stile che viene celebrato oggi. La straordinarietà sta nel fatto che, nato negli Usa come stile underground e anarchico, ispirato in qualche modo al disgusto e al degrado del leggendario club CBGB di New York e del suo maleodorante bagno (dove ci accompagna Matteo Guarnaccia con il suo divertente libro The Punk Play Book, recentemente pubblicato), passando poi per Londra, ha finito con l’occupare le pagine patinate di Vogue e frequentare le passerelle più prestigiose e i salotti esclusivi. L’imprevedibilità della vita, del resto, rimane l’unica vera speranza. E gli strappi e le borchie fanno parte ormai di ogni scenario metropolitano. È emblematico, poi, il destino della spilla da balia: quel minuto elemento appartenente alla casta dei paria – del quale si attribuisce la paternità a Walter Hunt che 165 anni fa rieleborò l’antica fibula – ha creato conflitti generazionali trafiggendo le guance di molti ragazzi stralunati aderenti al movimento che, pur avendo vita breve (1976-1980) tanto ha influenzato l’immaginario. E ancora, la spilla, è arrivata a sorprendere l’opinione pubblica internazionale, quando, all’anteprima londinese del film Quattro matrimoni e un funerale (era il 16 maggio 1994) arrivò Elizabeth Hurley in un abito firmato Versace.
Era un tributo alla sensualità: nero, in seta e Lycra, sottili bretelle, il vestito stava insieme solo grazie alla versione macro di spille da balia dorate, poste in punti strategici. L’effetto fu talmente dirompente che resta ancora un parametro, l’icona del neo-punk, oltre ad aver segnato un salto di popolarità sia dell’attrice che della Maison Versace. L’eco del grande momento di rottura degli schemi provocati dal movimento non si è mai del tutto spenta. L’intuizione del disordine come scelta stilistica ha continuato a germogliare, a volte scegliendo un linguaggio carsico, altre facendo dichiarazioni più esplicite.
Certo è che anche nelle ultimissime collezioni tutti i grandi nomi gli hanno reso omaggio. Da Yves Saint Laurent a Louis Vuitton, da Valentino a N°21. Rei Kawakubo per Commes des Garçons, poi, ha compiuto un’operazione concettualmente singolare: ha immaginato un punk settecentesco. Un dialogo in tempi di rivoluzione. Pomposità, gigantismi ed estetica scomposta per unirsi ai festeggiamenti, che si sommano e si moltiplicano.