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Il grunge non è mai morto

La scena di Seattle non è mai sparita del tutto, lo dimostrano i nuovi dischi di Alice In Chains e Mudhoney. Perché la rivoluzione non è stata solo un’etichetta, come ci raccontano i suoi protagonisti
Gli Alice In Chains negli anni 90. Foto: Al Seib/Los Angeles Times via Getty Images

Foto: Al Seib/Los Angeles Times via Getty Images

Pronto, risponde il magazzino della Sub Pop. Desidera?”. La voce allegra all’altro capo è quella di Mark Arm, voce dei Mudhoney, la band di Seattle considerata uno dei capostipiti del grunge, insieme a Soundgarden, Mother Love Bone, Screaming Trees, Alice in Chains, Nirvana e Pearl Jam. “Grunge” è un’etichetta dall’origine incerta – e oggi odiata da quasi tutti quelli che se la sono vista assegnare –, che identifica quel movimento artistico ed estetico che ha cambiato il mondo tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio dei ‘90: una sorta di revival di sottocultura punk e DIY, che ha mandato in pensione eccessi e buffonate eighties – o almeno ci ha provato – e ha rappresentato l’ultima vera rivoluzione musicale della Storia, per ora.

Per quelli della mia generazione, l’avvento del grunge ha coinciso con i sogni, le paure, le emozioni e le batoste dell’adolescenza. La data della sua fine – e l’ingresso in quella sterminata landa di prosaicità e imborghesimento che è la vita adulta –, per molti è da cercare nel suicidio di Kurt Cobain, il leader dei Nirvana, nel 1994, ma secondo un pensiero più radicale il grunge era già un walking dead quando MTV ha trasmesso per la prima volta il video di Smells Like Teen Spirit nel 1991, assicurandone l’immortalità tramite il mercimonio dell’ anima di Cobain e soci al satana dell’heavy rotation; oppure quando i Pearl Jam hanno pubblicato per Epic, etichetta della major Sony, Ten, il loro radiofonicissimo album di debutto, l’anno successivo.

Il grunge ha fatto irruzione nella vita di chi scrive nel 1992, sotto forma di una musicassetta che conteneva, mischiate con una leggerezza filologica che oggi fa inorridire, canzoni di Guns’N’Roses (Don’t Cry), Metallica (Nothing Else Matters) e Nirvana (Smells Like Teen Spirit). Il potenziale rivoluzionario dell’ultima appariva chiaro fin dal primo ascolto: quel mix di aggressività, coolness, melodia nella distorsione e nella voce urlata, ed economicità dell’esecuzione – senza i virtuosismi onanistici rappresentati dall’assolo di chitarra, quel cliché che non morirà mai, ma che a ondate nella storia del rock qualcuno sente il bisogno di limitare.

E quando è terminato il grunge per il sottoscritto? Probabilmente con la diversità di Down On the Upside, l’ultimo disco dei Soundgarden, e il loro successivo annuncio di scioglimento. Quell’album era semplicemente un’altra cosa. Io ero cresciuto, un dio del rock si era sparato una fucilata in faccia, e i più fighi di tutti, appunto i Soundgarden, avevano capito che andare avanti non aveva senso. Era un’epoca in cui le band ancora si scioglievano. Il grunge, per come lo conoscevamo e per quello che aveva rappresentato, per me era finito.

In realtà non è andata così. Così come il grunge non è mai nato, se non come categoria di marketing, nemmeno è mai morto. Ha continuato a vivere, sotterraneamente. Ha resistito alle mode e allo spaesamento e ha ritrovato la dignità calpestata da band come Korn e Limp Bizkit, e successivamente Killers e Kasabian. Ma che cosa è diventato, esattamente? Non c’è nessuno più indicato per rispondermi di Mark Arm, che a distanza di trent’anni dal primo disco dei Mudhoney non ha perso un briciolo dell’attitudine da outsider che aveva allora, se è vero che, nonostante la band pubblichi questo mese Digital Garbage, il suo decimo album, e non abbia mai fatto passare più di 5 anni tra un disco e l’altro, continua a essere una rockstar non professionista, e di giorno lavora, appunto, come magazziniere per la Sub Pop, la storica etichetta musicale che ha pubblicato quasi tutte le pietre miliari del sound di Seattle.

American alternative rock band Mudhoney pose for a studio portrait, UK, circa 1992. Clockwise from top left: Mark Arm, Steve Turner, Dan Peters and Matt Lukin. (Photo by David Tonge/Getty Images)

«Cos’è diventato il grunge, oggi? Bella domanda, non ti so rispondere. È stato un periodo divertente ma, come è iniziato, è finito in fretta. Noi abbiamo goduto per un po’ dell’attenzione ricevuta, poi siamo tornati a essere quello che eravamo: una garage band che fa musica per divertirsi, sbattendosene del successo e del denaro. Non che ci farebbe schifo fare un po’ di soldi veri, ma non abbiamo l’ansia di pagare il mutuo con la nostra musica. Così siamo liberi di fare il cazzo che ci pare. E non ci possiamo lamentare: ogni tanto andiamo in tour in giro per il mondo, e la gente viene addirittura a sentirci suonare». Forse il segreto di fare buoni dischi è questo: non cercare di scrivere una hit: «Di sicuro quando registriamo un disco non ci mettiamo lì a pensare: “Ecco, probabilmente questa andrà in classifica…”. Semplicemente non fa parte della nostra realtà». Arm aveva lasciato i Green River, all’epoca band seminale della scena di Seattle (formata insieme a Steve Turner dei futuri Mudhoney con Jeff Ament e Stone Gossard, che in seguito passeranno a formare i Mother Love Bone, e quindi i Pearl Jam), in disaccordo con l’indirizzo più pop cercato da Ament e Gossard. Che cosa ha pensato, allora, la prima volta che ha ascoltato Ten? È rimasto scandalizzato per la sua orecchiabilità? «I Pearl Jam sono l’esempio di una band che continua a fare cose molto buone, nonostante il successo straordinario. Probabilmente sono meglio adesso di quando hanno iniziato. Mi vergogno un po’ a raccontare questa cosa, ma quando ho sentito Ten per la prima volta non mi è sembrato un disco destinato al successo. Quando Nevermind e Ten sono apparsi, e il primo ha subito fatto il botto, con i Mudhoney stavamo incontrando gli scout di diverse major, e ricordo che un giorno eravamo con questo tizio della Chrysalis (etichetta da lì a poco inglobata dalla EMI, ndr), che ci disse: Nevermind spacca, ma il vero disco che farà il botto sarà Ten. Dissi agli altri: “Non possiamo firmare con loro, questo tizio chiaramente non capisce un cazzo di musica”. (Arm esplode in una risata). Ovviamente ne capiva più di noi».

Inavvertitamente, o forse no, parlo poco con Arm del nuovo disco dei Mudhoney, e molto del passato, di quel grunge che oggi deve vedere come una gabbia da cui non potrà mai uscire: si è stancato di parlare di quello, insomma? «No, figuriamoci, mi chiedono le stesse cose soltanto da 30 anni, perché dovrei essermi stancato? Facciamo 28 anni, per essere precisi», risponde sarcastico. Ok, ma ci sarà un motivo, per cui tutto il mondo è ancora ossessionato dal grunge. «Credo sia perché è stata l’ultima volta in cui l’hard rock è stato rilevante, e sto parlando di un tipo di hard rock organico, non artefatto. Non posso parlare per band di altri luoghi, come gli Stone Temple Pilots o i Bush, ma la scena di Seattle era reale: ci conoscevamo tutti ed eravamo tutti interessati a quello che facevano le altre band. “Grunge” è un’etichetta, un contenitore, ma dentro c’è qualcosa di concreto, che ha significato tanto per tutti noi. Perché era vero».

Una volta Arm, parlando della Sub Pop, ha detto: erano gli unici a scritturare gente brutta come noi. Ma oggi nelle foto i Mudhoney se la passano piuttosto bene: non sembrano i classici rocker invecchiati, con i capelli lunghi e i vestiti di pelle passati i 50 anni – come i Metallica o, diosanto, i Guns N’ Roses. «Ma a dire il vero loro erano ridicoli già allora!», commenta Arm. Ed è difficile dargli torto.
Sarà una coincidenza, ma in questa fine estate altri padrini di Seattle hanno pubblicato un album, anche loro cinque anni dopo il precedente: gli Alice in Chains, che con Rainier Fog continuano il loro rinascimento iniziato nel 2009 con Black Gives Way to Blue. La band più metal di tutta le scena di Seattle, fondata da Jerry Cantrell nel 1987, ha dovuto affrontare la difficile sfida di trovare un nuovo cantante dopo la morte per overdose di Layne Staley, un frontman dalla voce e dal carisma irripetibili, evitando quell’effetto “tribute band” che oggi, bontà loro, caratterizza i Queen. Ed è ripartita più che dignitosamente con William DuVall, veterano della scena hardcore di Atlanta, che dal 2006 si divide le parti cantate degli Alice in Chains con Jimmy Cantrell.

Ed è quest’ultimo, chitarrista tra i più sottovalutati del rock contemporaneo, che ha raccontato a RS Usa che cosa significa guardare indietro al momento irripetibile in cui la provincia americana più grigia ed estrema ha conquistato il mondo: una storia intensa che, purtroppo, per Cantrell e gli altri, è costellata di amici che non ci sono più, da Cobain a Staley, a Chris Cornell dei Soundgarden, morto suicida lo scorso anno: «Seattle era una piccola città, e ci conoscevamo tutti. Sono grato per avere frequentato questi artisti, avere creato insieme a loro quello che abbiamo creato. Non è facile essere il sopravvissuto che parla di tutti gli amici che se ne sono andati. È quello che ho fatto negli ultimi 15 anni. Adesso voglio guardare avanti, concentrarmi su ciò che posso controllare. Ma non è facile, mi mancano molto i ragazzi». Rainier Fog sembra un ritorno alle origini: la title track è un riferimento a Mount Rainier, la vetta che sovrasta l’area di Seattle. «Un omaggio a tutto ciò che siamo stati: da dove veniamo, chi siamo, i trionfi e le tragedie che abbiamo vissuto», spiega. L’album, inoltre, è stato registrato allo Studio X, dove la band aveva prodotto il disco omonimo del 1995.

Jerry Cantrell, come Mark Arm, rappresenta una parte di storia che ha resistito all’esplosione della fama, al veloce disinteresse dei media e agli anni del declino del rock, raggiungendo una sorta di serenità che non impedisce loro di fare ancora buoni dischi. In tanti si sono persi lungo la strada, ma né Cantrell né Arm, né il resto delle loro band, fanno parte della lista dei caduti. Chi l’avrebbe detto, nel lontano 1994, che il grunge sarebbe stato ancora rilevante nel 2018, anche se solo per riflesso delle emozioni del passato? Cantrell non si preoccupa troppo del futuro: «È strano avere ancora la possibilità di fare musica ad alto livello a 52 anni. Nella vita si impiega un sacco di tempo a capire qual è la tua famiglia, e non sto parlando dei legami di sangue. Io la mia l’ho trovata. E insieme continuiamo a vivere il viaggio iniziato a Seattle 30 anni fa».

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