Intanto voglio cominciare dicendo che Ronni Vood è il mio Stone preferito e che secondo me è sardo.
Detto questo passiamo al concerto dell’anno, anzi IL Concerto con l’articolo maiuscolo e con la C maiuscola e anche una c minuscola subito dopo. Recandomi dall’hotel al Circo Massimo a piedi, l’aria del grande evento era palpabile. La gente chiacchiera in questa processione verso la messa del rock&roll facendo paragoni con i Pink Floyd a Venezia. «Sarà un delirio, mio padre mi ha portato in piazza San Marco nell’89, a un certo punto ho visto il terrore nei suoi occhi…». Ellamadonna, penso, alla fine sono un tot di anziani sul palco che suonano (suonano loro?) delle vecchie hit, non ci sono certo gli Hell’s Angels a fare da sicurezza (spotto subito vicino ad un bibitaro abusivo gruppo di bikers con giubbotti degli Hell’s Angels), al massimo qualcuno de Tor Vajanica vestito da centurione romano.
«Ao’, MTV! Dacce ‘n bijetto mortacci dei brian jones», mi grida uno fuori dai tornelli. Prendo una birra e porcoggiuda è calda. Raga, io ve lo dico a voi che gestite i paninibaracchini, ste birre fatele ghiacciare, perché qui gira la voce che ci sarà Bru Spristin sul palco a fare un pezzo con i ragazzi, non potete rovinarmi il ricordo co ste buste de piscio.
Passo tre controlli, con la sicurezza che sente anche lei l’aria dell’evento dell’anno e lo dimostra con serie di bestemmie rotanti che si sprigionano su quelli che cercano di entrare a babbo.
Finalmente sono dentro e devo dire cari amici della rivista/sito di Rolling Stone, che la scena del Circo Massimo strapieno è una di quelle visioni che ti stringe il cuore, una di quelle immagini che ti riconciliano con il rock&roll, è quel “io c’ero” che straccerà le balle dei nostri figli che vedranno concerti solo on-line, senza aver vissuto la messa della musica del diavolo nella città santa. Bomba.
Gira un’altra voce lì tra di noi sotto palco sulla sinistra (guardando il palco), che la birra sia finita. Sia crea il panico tra un gruppo di ultracinquantenni vestiti da fricchettoni che scoprirò poi risiedere a Ibiza. Sì, perché sembra di essere a un normale concerto rock di mega rockstar fidanzate con super modelle. Ma qui c’è gente di settant’anni nel moshpit, uomini e donne nella loro piena maturità che si rovesciano in faccia litri d’acqua per vincere il caldo, che mandano selfie ai propri figli. Che sono a casa, on-line.
Faccio girare un rumor anche io, che Ronni Vood è sardo. Ma nessuno mi ascolta. Sorvolo sull’opening act John Mayer, huge in America, sticazzi in Europa, ma comunque bravo e con quel look che se lo vogliono fare sia le mamme che le figlie.
Finalmente eccoli, salgono sul palco, li intravedo tra le teste, vedo Mick Jagger lì a qualche metro che saltella e agita le braccia, con i capelli tinti. E poi Keef, tutto storto sulla chitarra, con le dita tutte storte che si contorcono e magicamente producono riffs, Charlie Watts, tutto impostato jazz e con quell’espressione un po’ così che abbiamo noi che abbiamo visto un ictus. Ma sempre sul pezzo, «d’altronde», sento dai miei vicini «ha un’impostazione jazz, questo può suonare fino a quando muore». Tipo stasera no eh!! Oh, nun famo scherzi.
E poi lui, il mio Stone preferito, Ronni Vood, tutto scheletrico con la faccia di cuoio, le scarpe di Willy il principe di bel’air e quel tocco da vero bomber di Carnaby Street negli anni ’60. Ronni è il migliore perché lui secondo me ancora non ha capito quanti anni ha, ha smesso di contarli e da allora vive in un mondo fantastico, pieno di energia e di visioni psichedeliche. Allora, devo dire per diritto di cronaca che Mick legge i testi delle canzoni su un piccolo monitor davanti a lui. Glielo avrei perdonato se non ci avesse fatto vedere i capezzoli da sotto il maglioncino trasparente.
Snocciolano una hit dopo l’altra anche se forse nessuno voleva sentire Streets of Love, ma a me è piaciuta. Il pubblico del Circo Massimo, piacione, beffardo e assetato di circenses come i suoi avi, risponde con coretti su Sympathy, singalong su Satisfaction, sembra che sappia che finirà anche lui sul DVD che gli Stones stanno registrando per l’occasione. Cacchio però alla fine Spristin ha paccato, Bruce non c’era alla grande festa dei 50 anni della band.
50 anni. È la storia del rock&roll, la stessa storia che ogni tot si ripete, solo che gli Stones non hanno fatto remakes, loro sono la storia originale, fatta di blues, morti, anime vendute al diavolo, litigi e riappacificamenti e non ultimo, canzoni capaci di rimanere intatte, con la stessa forza degli esordi, anche dopo 50 anni.
Un solo bis, e poi tutti a casa, felici, giovani e adulti che da buoni italiani: «Eh ma potevano fare questa…». Si sfolla bene dal Circo Massimo, niente effetto Pink Floyd a Venezia, in cinque minuti sono per strada in una città incredibile, mi sembra di vedere le facce degli Stones nei monumenti: RonniWood-Teatro Marcello, Charlie Watts-Bocca della Verità, Keef Richards-Fori Imperiali, Mick er Colosseo Jagger.
Mi vedo Portogallo-Stati Uniti in uno di quei baretti sui via Cavour che sarebbero piaciuti tanto a Monicelli, con i camerieri denutriti e scarni, gli americani che magnano a pizza cor cappuccino, i locali che entrano a prendere le sigarette.
E comincio a cantare Antonello “Grazie Roma che ce fai piagnere e sognare ancora”.