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Il nuovo Chris Rea al Montecarlo Jazz Festival

Con il suo blues ipnotico il grande chitarrista dimostra di aver trovato la felicità. Un concerto con poche concessioni al passato e largo uso di slide
Chris Rea, 63 anni, dal vivo nella Salle Garnier del Casinò di Montecarlo

Chris Rea, 63 anni, dal vivo nella Salle Garnier del Casinò di Montecarlo

«Sono un chitarrista slide che ama il blues». Chris Rea apre la sua esibizione alla seconda serata del Montecarlo Jazz Festival, nella bellissima Salle Garnier del Casinò, con una dichiarazione di intenti. Sul palco con lui c’è una solida blues band in formazione tipo (basso, batteria, pianoforte, chitarra ritmica e due coriste) e una scenografia dominata da tante chitarre luminose blu che piovono dall’alto.

Bluey, come la sua Fender Stratocaster preferita. Quella che usa per iniziare con Dancing Down the Stony Road dall’album omonimo del 2002: «La canzone più importante della mia vita». Grande storia quella di Chris Rea, star del pop rock melodico anni ’80 da 20 milioni di dischi venduti e 18 hit nelle chart inglesi e americane, da Fool (If You Think It’s Over) (il suo primo singolo, subito al numero uno in America nel 1978) a Road to Hell, passando per Josephine e On The Beach che remixata dal duo elettronico tedesco York è diventata un classico del chill out ibizenco nei primi anni duemila, regalandogli una villa a Formentera oltre ad una Ferrari Dino e ad una Lotus 6 del 1955 con cui partecipare alle gare di auto d’epoca. Un passato glorioso nel mainstream che ha deciso di cancellare nel nome del blues: «I miei vecchi album non li ascolto nemmeno più» ha detto, «Il pop non è il mio mondo e non lo sarà mai più. Per troppo tempo il music business ha manipolato la mia vera ispirazione».

Anche per questo, Chris Rea non rilascia interviste, sfugge dalle regole della promozione e dal 2002 lancia gli album solo con i concerti, lasciando parlare Bluey e Pinky (l’altra chitarra, una Stratocaster del 1952 rossa che negli anni è diventata rosa) e il suono ipnotico e malinconico del blues suonato con la slide.

L’unica concessione al passato è il nome del suo nuovo tour, The Last Open Road Tour, che arriva in Inghilterra con undici date dal 1 al 20 dicembre 2014, per il resto Chris Rea sale sul palco di Montecarlo di fronte ad una platea prestigiosa ed elegantissima indossando jeans e maglietta nera, si perde in lunghi assoli muovendo il bottleneck sul manico della Fender, parla poco e butta dentro la prima hit (Josephine) solo a metà scaletta, mischiata a Where the Blues Come From dall’album Blue Guitars del 2005.

In ospedale ho giurato:
“Se sopravvivo farò solo dischi blues”.

È una svolta radicale e Chris Rea non torna più indietro. «Anche se ormai ho 63 anni. Ma del resto, tutto nella mia carriera è arrivato in ritardo». La chitarra, per esempio, che ha scoperto quando aveva già 22 anni e lavorava nella fabbrica di gelati di suo padre Camillo e di suo zio Gaetano a Middlesborough, Yorkshire. È il 1973 e Chris molla il lavoro sicuro nell’azienda di famiglia per entrare nella rock band Magdalene al posto di David Coverdale, appena scelto come nuovo cantante dei Deep Purple. L’unica cosa che c’è sempre stata è il blues: «È entrato nella mia vita attraverso la radio nella camera da letto di mia madre, con la voce ruvida e inquietante di Charley Patton».

Patton, la misteriosa leggenda che cantava ogni strofa come se fosse l’ultima cosa che faceva prima di morire, gli fa scoprire la potenza della voce («Fino a quando non ho sentito lui pensavo di avere una voce orrenda» ha raccontato), la sublimazione del dolore, della paura e dell’amore nella musica e la spiritualità del blues del Delta: «I bluesman del Delta cantavano al cielo, quelli di Chicago cantavano nei bar per un pubblico di gente che beveva. C’è una bella differenza». È questa musica fatta per salvare l’anima ad ispirare la svolta della sua vita.

Nel 2001 Chris Rea finisce in ospedale con una diagnosi drammatica: cancro al pancreas. Finisce sotto i ferri per 14 ore, i medici gli danno il 50% di possibilità di sopravvivere. E in quel momento arriva l’illuminazione: «Mentre mi mettevano la mascherina per l’anestesia ho pensato: fermatevi! Non ho ancora fatto la musica che voglio davvero fare». Passa settimane in ospedale, stordito dai farmaci e in preda alle visioni («Charley Patton è venuto a trovarmi più volte, o almeno io l’ho visto»), pensando ad una sola cosa: «Se sopravvivo farò solo dischi blues».

Alla fine, dopo un anno e molti altri interventi, Chris Rea ce la fa. Perde molti chili, sviluppa un diabete che lo costringe a fare iniezioni di insulina molto spesso, ma dopo questo incontro ravvicinato con la morte ha capito cosa vuole fare della sua vita: «Ho avuto una seconda occasione, non mi interessa più niente del resto». Nel 2002 fonda la sua etichetta JazzeeBlue ed esce con il primo album blues Dancing Down the Stony Road, poi pubblica Blue Streets, The Blue Jukebox, The Return of the Faboulous Hofner Blue Notes e il monumentale cofanetto Blue Guitars, undici cd con 137 canzoni in cui ripercorre tutta la storia del blues, dall’Africa a Chicago.

Oggi Chris Rea registra i suoi dischi nello studio tappezzato di foto di sua moglie Joan e della figlie Josephine e Julia che si è costruito nella sua casa in campagna affacciata sul Tamigi e ha sacrificato successo, soldi e fama nel nome del blues. E sul palco del Jazz festival di Montecarlo, con molti anni e tante ferite addosso, mentre chiude il suo concerto con una versione infuocata di Never Too Old To Dance, (“Puoi dirmi che sono vecchio, ma non sarò mai troppo vecchio per ballare”) sembra un uomo che nelle profondità della musica del Delta ha trovato la felicità.

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