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Il professore e la Dark Polo

Ma che cos'è la Dark Polo Gang? Dal deep web fino “al mio gulo sopra una Bentley”, ecco cosa rappresenta il fenomeno trap del momento
dark polo gang

La Dark Polo Gang. Foto via Facebook

DPG è solo uno tra gli oggetti, i simboli, i nomi, del variegato paesaggio adolescenziale che si stende oltre la cattedra del professore, come la dab o il bottle flip, finché una mattina l’insegnante viene fermato nel corridoio da una coppia di alunni del quinto che si avvicinano con fare minaccioso: «Prof, lei ascolta Dark Polo Gang?». Si capisce subito che è una questione delicata. Il prof nega. «Non li ascolti, quelli sono dei cretini» concludono i due, e se ne vanno.

Siccome la psicologia dei professori non è molto diversa da quella degli studenti, quel pomeriggio stesso l’insegnante si immerge nella ramificata produzione della DPG. Ne esce con la testa piena di slogan e gerghi (triplo sette, bufu, eskere, swag) e una serie di questioni destinate a rimanere senza risposta.

La prima è: “Quanto ci credono?”. Prova a sottoporla ad altri mostrando qualche video alla compagna e ad amici coetanei, che reagiscono allontanandosi inorriditi. Altri amici giornalisti aggiornati minimizzano il fenomeno, il quale però, nel frattempo, non smette di crescere. Escono articoli e servizi dedicati alla Gang, il professore studia, ma non trova risposta alla domanda. Elabora un piano: strusciarsi per qualche tempo sui linguaggi e le ossessioni giovanili come metodo per capire cosa passa nella testa dei sonnolenti destinatari delle sue lezioni su Kant e la rivoluzione industriale.

La Dark Polo Gang. Foto via Facebook

C’è la bufala blue whale, ci sono i mostruosi gruppi “segreti” di Facebook tipo “Gentaccia” dove i suoi ragazzi accedono a un orrendo miscuglio di razzismo, sessismo, gore e violenza varia, il tutto in un clima di spensierato cameratismo e beato disinteresse per le fonti. Gentaccia che si autodefinisce allegramente gentaccia.

Quindi il professore torna a ragionare sulla DPG: Punto 1. la trasgressione tipica delle culture giovanili si è rovesciata in una totale anzi caricaturale adesione ai modelli che guidano la vita nel turbocapitalismo occidentale: consumo, denaro, abiti firmati, pose, cocaina, concorrenza, cellulari. Restano vaghe rivendicazioni contro i poliziotti e contro un generico Stato. Punto 2. Gli atteggiamenti gangsta nati come forme difensive nelle periferie del proletariato afroamericano sono ormai candidamente interpretati dai giovani figli di papà. Punto 3. Tutto questo galleggia in una sorta di astratta e aerea bambagia dove i segni sembrano seguire il vento come aquiloni privi di qualsiasi legame diretto con la realtà.

Una volatilità testimoniata dai nomi dei generi da cui attingono i DPG e le basi (tendenzialmente considerate di alto livello) di Sick Luke: vaporwave, cloud-rap. Tra parentesi, molti di questi segni chiamano direttamente in causa l’insegnante: dalle magliette dei gruppi metal anni ’90 che i suoi studenti non hanno mai ascoltato, pur indossandole, ai nomi di trapper amici/nemici della DPG come Achille Lauro o Gianni Bismark dove risuonano nozioni storiche filtrate nel subconscio dei ragazzi stravaccati sul banco o intenti ad autoipnotizzarsi con un fidget.

La Dark Polo Gang. Foto via Facebook

C’è un verso ripetuto in Pavimenti in resina che sembra aprire, al professore, uno spiraglio nella psicologia nebulizzata dei quattro rapper e dei loro milioni di giovani fan: “Ti stai sforzando, non sei te stesso”. L’unico principio valido è quello del piacere, qualsiasi sforzo che miri a modellare la personalità secondo criteri morali è un segno di falsità. L’etica dello scialla (da cui il titolo del film di Francesco Bruni, padre del DPG Side, che da sceneggiatore ha avuto un ruolo importante nella rappresentazione mainstream della gioventù italica degli ultimi anni, ma quanto lontano e rassicurante rispetto a quello che sta facendo oggi il figlio con la sua Gang).

La sincerità è un valore rivendicato di continuo dalla DPG. Sincerità che coincide con il semplice lasciar correre pensieri ed emozioni, dal ventre al fiato delle parole, parole che nel caso dei trappisti romani presentano un tipica sonorizzazione delle consonanti occlusive sorde (ad es. “gogaina” ) come marca di estrema sciatteria linguistica da pseudoborgataro.

Tutta questa anarco-punkabbestialità emotiva non è senza inconvenienti e può ritorcersi contro i suoi stessi campioni. L’esempio più noto: per un leggero contrasto, il più impulsivo del gruppo, Tony, si è lanciato in un video dove copre di insulti razzisti il rapper ghanese-parmigiano BelloFiGo Gu (Gu sta per Gucci), facendo perfino il verso della scimmia. Ha detto quello che gli andava di dire, sinceramente. Poi ha dovuto chiedere scusa.

Traccia vistosa dell’indolenza programmatica dei DPG è il rifiuto di chiudere le rime: a differenza delle posse “old school” che ascoltava il professore – molto più straight non solo dal punto di vista politico ma anche prosodico – nel rap giovanile degli ultimi anni abbondano le rime imperfette, false, equivoche, ecc. ma i DPG anche in questo caso battono tutti. La pigrizia è il marchio della nostra sincerità, la prima cosa che ci passa per la testa è quella giusta e di sicuro la prima cosa che ci passa per la testa non sarà niente di formato o disciplinato o troppo sensato: questo sembra proclamare la sciatteria dei loro versi, il flow approssimativo, secondo il professore. Non c’è senso, ritmo, non c’è organizzazione dei significati o coerenza. Tutto va bene con tutto: machismo ostentato, pistole e insulti contro haters a cui seguono senza soluzione di continuità “bascetti” e cuoricini.

Nessuna contraddizione è percepita tra il “ferro” e il “love”. Nessuna incoerenza tra le conclamate attività mafiose e i riferimenti al Re Leone o al Piccolo Principe, tra il far seguire a una minaccia di morte uno “specchio riflesso”. Nella confusione volatile si può benissimo mostrare il ragazzino che si nasconde dietro il gangster cattivo. Così neppure suonano strane le accuse di essere “froci” ai nemici di turno accanto agli occhiali di Gucci o a quegli orecchini che sembrano rubati direttamente alla toeletta delle madri borghesi o le scarpe rosa (“Ai piedi Valentino rosa come fossi una bimba” canta Tony).

La Dark Polo Gang. Foto via Facebook

O ancora passa inosservato il divario tra il vistoso uso gangsta-americanizzate del temine “troia” (pronunciato “droia”) come sinonimo di “ragazza” e le stories monogamiche dei ragazzi dark con le loro fidanzate “storiche” su Instagram. Il professore ne potrebbe elencare molti altri di simili stridenti contrasti, al centro dei quali piazzerebbe senz’altro l’assurdità di quei monticiani che parlano del loro quartiere invaso da ricchi turisti e studenti Luiss intenti a sorseggiare mojito, evocandolo come se fosse un ghetto di Atlanta.

Se tutto è saltato per aria, se non c’è un senso, se sesso droga e soldoni sono la trasgressione che non ha più nulla di trasgressivo, allora forse è inutile domandarsi “Quanto ci credono?”. Se non c’è nulla di solido, nulla di storico o razionale, non c’è nulla in cui credere, resta la ripetizione meccanica dei cliché (“Il mio gulo sopra una Bentley”) e il denaro nel video di “Caramelle” ridotto a foglietti colorati che svolazzano (vaporwave) qua e là senza nessun rapporto con il potere d’acquisto e le leggi del mercato.

Citazioni orecchiate a caso, pose sparate sui social, le mossette fatte con le mani, altri segni che volano. Resta l’idea di una performance e di una esposizione continua, e una psicologia da filtro dell’aria dei tempi, aria notoriamente zozza. Un teatrino regressivo dove qualche più riuscito momento arty offre un appiglio a chi cerca il buono, dove l’intelligenza ha una sua parte nella composizione estetica e nel marketing, ma tutto suona abbastanza casuale.

Cosa sono dunque i DPG? Rappresentano i giovani, o almeno una parte di essi? Molte studentesse che non si preoccupano troppo della privacy mettono le loro foto su Instagram. Centinaia di selfie che esprimono uno struggente bisogno di confermare la propria esistenza e dove spesso appaiono belle e finte come algide barbie o veline plastificate.

Quando il professore ha visto queste foto non le ha riconosciute, letteralmente. Quelle non sono le stesse ragazze che stanno in classe, con cui parla a scuola. C’è un salto quantico tra l’immagine 3D (umana) di queste persone e quella on line (postumana). Lo stesso deve valere per i pischelli della Gang, dietro la cui immagine artificiosa e commerciale si nascondono certamente dei ragazzi simpatici (è anche per questo, in fondo, che hanno successo).

Ma poi pensa al tempo della sua scuola, a come erano sciatti e scialla anche loro, alle studiate pose alternative e trasgressive, ai loro segni e discorsi tenuti a terra dal filo sottile di una storia di lotte studentesche sul viale del tramonto, sempre meno Marcuse e sempre più ACAB. La ribellione era già conformista.

E pensa che in fondo c’è un senso, c’è una continuità. Voleva capire chi c’è dietro quella gentaccia, ma quella gentaccia è la stessa che cammina per strada, al supermercato, ovunque, se gratti l’intonaco delle apparenze. Forse all’aumentare della messa in scena corrisponde persino una maggiore consapevolezza (“fai finta come un wrestler” canta Tony in Sportswear, o “Sto solo cantando non è vero niente” dice Side in Lei mi chiama) anche se il professore non saprebbe dire dove vada a parare questa ipotetica consapevolezza. Probabilmente da nessuna parte, come nel wrestling, come i selfie su Instagram: sai che non è vero, ma non importa.

Voleva la verità al di là delle pose e delle immagini degli adolescenti: come reagiscono gli studenti che consumano video gore del darkweb o del “darkfacebook” se gli capita di trovarsi dall’altra parte dello schermo? Saranno ancora così cinici? E come si comportano i DPG quando non fanno i coatti davanti a migliaia di persone su youtube o Instagram? L’ha chiesto ai ragazzi della sua classe e ha avuto la risposta giusta, semplice, banale: Come vuole che si comportino prof, normale – hanno detto – si comportano normalmente, come tutti.

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