Le trentamila persone che avevamo annunciato ieri erano tutte presenti alla seconda giornata del NOS Primavera Sound di Porto. Nonostante i concerti fossero spesso simultanei, il fiume di gente sembrava moltiplicarsi negli spostamenti verso i quattro palchi attivi, muovendosi principalmente dal NOS stage al Super Bock.
La giornata di ieri si è conclusa questa mattina alle cinque e mezza con la techno di Mano Le Tough che è riuscita a trattenere i più energetici sotto il palco sponsorizzato da Pitchfork. Il pomeriggio aveva visto il solito tripudio di chitarre folk, country, synthpop, psichedeliche e punk, ma è stata la sera a riportare i toni verso le frequenze più basse con il live intimista dell’americano Bon Iver (sul palco con due batterie, un basso, due chitarre, cinque fiati e tante diavolerie elettroniche). C’erano poi i bassi assordanti delle basi del rapper Skepta che facevano vibrare anche il naso e quelle meno crudeli dell’attesissimo Nicolas Jaar, come sempre ipnotico coi suoi suoni distorti tirati al limite e i suoi mutamenti continui di ritmo. E’ stato poi il live di Richie Hawtin a trascinare il flusso da sold out del pubblico dagli ultimi due stage aperti, il NOS e il .Palco (sponsorizzato dal comune di Porto) al Pitchfork. Il suo show, CLOSE, ha trascinato tutti in uno stato di trance, riuscendo a soddisfare l’intento originale del producer canadese che scoprirete nell’intervista qui sotto.
Il tuo show si chiama CLOSE – Spontaneity and Sincronicity. Perché credi che questo sia il momento della spontaneità e della sincronia?
L’idea dello show mi venne quattro anni fa al Coachella dove avevo notato come le persone considerassero i dj e gli artisti di musica elettronica diversamente dai membri di una normale live band. Sentivo che dovevo fare qualcosa, che dovevo abbattere quel gap con uno show che creasse più di una connessione con le persone. Nella mia testa, i dj più creativi sono quelli che riescono a innestare qualcosa di incredibile quando suonano, spesso attraverso la spontaneità che li rende capaci di commentare musicalmente quel momento. Quando provi a creare uno spettacolo che usa diversi elementi come le luci, i visual, le animazioni o quel che sia, l’aspetto più spettacolare del live, la sincronia tra l’impulso creativo dell’artista e la sua realizzazione, si piega ai tempi della scaletta scenografica e la performance finisce per tendere di più verso il teatro che la musicalità. I visual di CLOSE sono tutti prodotti live con le videocamere che ho puntate sugli strumenti e il pubblico ha così la possibilità di seguire l’evoluzione dello show e quindi il mio istinto creativo. Questo è quello che intendo per dj performance, non si tratta solo di suonare qualche disco o di seguire la scaletta. Non è vero che tutti i dj sono stati creati uguali: ce ne sono alcuni che sono soddisfatti suonando solo qualche traccia e altri, i performer, che non compongono solo la playlist della serata ma lo show integrale producendo esperienze incredibili che sono diverse ogni notte. Io credo di far parte di questi ultimi e spero di avvicinare il mio pubblico a quello che ho in testa.
Non hai mai pensato di suonare con una vera band?
Non mi interessa suonare con una band ma con un vero musicista. Anche solo dirlo mi sembra totalmente assurdo e rappresenta quello che siamo nel 2017: ancora oggi i turntable e le tecnologie non sono riconosciuti come dei veri strumenti musicali. Ma se affrontiamo l’argomento a un livello davvero basico, la tecnologia è uno strumento ponderato dall’uomo per aiutarlo a creare qualcosa di diverso. Come fece la chitarra che rese possibile un determinato tipo di musica, lo stesso hanno fatto i computer, i software e tutte le tecnologie. E’ da qui che vengo e credo sia più stimolante per me essere da solo su un palco con le mie macchine.
Che musica ascoltavi quando eri più giovane?
Molta più musica “tradizionale”, quella delle band, prodotta da più persone su un palco con chitarre e batterie, anche se c’era spesso anche una componente elettronica. Verso gli ultimi anni dell’adolescenza ho iniziato ad ascoltare cose come l’electro e la break dancing, i New Order e gli Erasuer e la musica industrial. Mi piacevano i musicisti che usavano i computer, le drum machine e quei suoni più sintetitci. Più li ascoltavo e più mi avvicinavo alla musica e a quelle tecnologie che permettevano ai musicisti di creare in maniera del tutto autonoma le proprie composizioni. Per questo non mi interessa essere sul palco con altri musicisti, voglio esplorare al massimo quello che posso fare. Non so, forse è un modo egoistico di vedere le cose, ma credo sia una musica più pura, incontrollabile. Non mi aspetto che possa piacere a tutti ma so che quella è la mia esperienza, che mi dà l’energia, l’eccitazione e l’ispirazione per far sì che gli altri mi seguano.
Pensando alla musica di oggi, quali sono gli artisti che stimi?
Recondite ha davvero creato qualcosa di importante in questi ultimi due anni, con la sua personale e incisiva elettronica melodica; la resurrezione di Aphex Twin, tornato a suonare in giro per il mondo, e la sua varietà inconfondibile di suoni rappresentano una grande fonte di ispirazione. Un altro grande artista è Nils Frahm che crea della bellissima musica melanconica. Quando l’ho visto solo sul palco con i suoi pianoforti, gli strumenti acustici ed elettronici, sono rimasto sconvolto, è stata probabilmente una delle performance più affascinanti che io abbiamo visto in questi ultimi tre anni.
La tua carriera è iniziata 25 anni fa, suonando anche nei rave party che ora vengono organizzati sempre meno spesso.
Quando ho iniziato la parola “dj” aveva un significato diverso: i dj erano quelli che mettevi in un angolo della stanza per far riempire il dance floor. Col tempo il culto e la fama del dj sono però mutati a favore della totale affermazione del suo ruolo. Agli inizi non ero quel tipo di ragazzo che voleva essere al centro dell’attenzione, ero uno a cui interessavano solo la musica e la tecnologia e volevo sì controllare il dance floor, ma da dietro le quinte e non su un podio. L’arte del DJing sta nel mettere insieme musica e frequenze per dare alle persone un’incredibile esperienza sonora, ma adesso l’attenzione si è concentrata tutta su quell’unica persona, sul suo look, i visual, lo show, o semplicemente sul suo modo di spingere le mani verso l’alto. In questo senso l’arte del DJing ha perso qualcosa. Ed è probabilmente questo che mi ha spinto verso il mio nuovo show.
Credi che il passaggio dai circuiti indipendenti dei rave a quelli più formali dei club di oggi abbiano influenzato anche il modo di produrre musica elettronica?
Sì, credo che molte cose siano cambiate. L’industria musicale della scena elettronica è diventata talmente grande che non puoi più credere che tutti quelli che ne vogliono far parte abbiano intenzioni buone. Quando mi sono affacciato su questa scena sono stato molto fortunato perché i numeri di allora erano poche centinaia di persone a serata, persone che ti venivano a vedere e che volevano entrare in quel circuito per amore della musica.
Come hai conosciuto Ricardo Villalobos e Sven Vath?
(Ride) ho conosciuto Sven Vath nel 1991 in un ascensore di un hotel di New York (io in realtà non me lo ricordavo ma è quello che mi ha detto lui). Era un grande ammiratore della mia musica e gli avevo regalato un mio disco della White Label chiamato Fuse a Few, che divenne poi uno dei miei primi dischi più conosciuti grazie al suo supporto. Lo suonava a Francoforte all’Omen, è grazie a quell’incontro fortuito sull’ascensore e al suosupporto che siamo diventati amici di vecchia data. Qualcosa di simile è accaduta con Ricardo: dopo quell’incontro, Sven mi propose di essere l’unico resident internazionale dell’Omen. Suonavo lì una volta al mese e ogni volta andavo nel negozio di dischi chiamato Delirium. C’era un ragazzo dietro la cassa con cui parlavo sempre e mi faceva ascoltare dischi pazzeschi. Quel ragazzo era Ricardo Villalobos.
La techno cominciò a modellarsi nei primi anni 80 grazie a movimenti come l’Underground Resistance, composta da afroamericani che usavano quel tipo di musica per arrivare a un cambiamento sociale. E’ questa la Detroit Techno che ami?
La techno di Detroit ha così tanti stili diversi che ogni producer che ne subisce il fascino ne riconosce come tale un tipo diverso. L’Underground Resistance era sicuramente una musica più militante, anche se è una parola forte, con un’implicazione sociale nei suoi messaggi. Credo che generalmente la Detroit Techno e la musica elettronica, che sono state per me una guida decisiva e di cui ho fatto parte a Detroit, sono sempre state un tipo di musica che ha dato forza all’individuo nel liberarsi dai confini sociali, economici e fisici, per sognare un futuro migliore. Quella musica, quel sogno, ci ha permesso di andare oltre viaggiando e incontrando persone in tutto il mondo, trascendendo le barriere razziali e linguistiche. Questa è la cosa incredibile e che credo sia il cuore della techno di Detroit: è musica elettronica strumentale futuristica che parla alla gente di tutto il mondo perché priva di parole. Non hai bisogno di condividere la stessa lingua per dialogare, è una combinazione di tutti i linguaggi del mondo.
Alcuni credono che la techno oggi sia diventata troppo edonistica e bianca e non più anche politica e nera.
Io ero a Detroit in quel primo periodo, nell’87 e negli anni successivi, la gente aveva opinioni diverse: c’era l’house di Chicago e di New York e la techno di Detroit. Credo sia difficile considerarla solo nera e militante, non l’ho mai pensata così. Sicuramente c’erano degli aspetti che potevano essere edonistici anche allora. La prima elettronica era prodotta da gente di tutto il mondo, producer bianchi, neri, molte delle band più interessanti erano di etnie diverse. Gente come gli inglesi Human League, i tedeschi Kraftwerk erano il riferimento per molti di quelli che stavano creando musica nuova in quel periodo. Credo che dovremmo essere più cauti nel dipingere immagini razziali. La purezza dell’elettronica sta nelle frequenze che possono arrivare a tutti senza filtri etnici. Queste frequenze ci fanno sentire tutti umani, è questo il suo potere.
Quali sono le prerogative che determinano i cataloghi musicali delle tue etichette, la M_nus e la Plus8?
Entrambe hanno diverse filosofie musicali: una è più minimalista e allettante, l’altra più heavy e techno. Musicalmente seguono quelle direzioni ma è l’elemento umano la prerogativa fondamentale. Non importa quanto sia bella la musica, deve esserci una certa connessione, emozionale o teorica, con la persona che la produce. Spesso, quando ricevo della musica che credo speciale il passo successivo che faccio è di incontrare l’artista che l’ha creata, prenderci un caffè, andarci a una festa. Invitare qualcuno nella tua etichetta vuol dire invitarlo in famiglia, deve quindi esserci una condivisione di valori e non necessariamente di intenti musicali.
Il cinema sta muovendosi verso un’interattività maggiore con il pubblico, attraverso la scelta del finale dei propri film e la realtà immersiva. Credi accadrà lo stesso con la musica?
Sì, tutti i tipi di media hanno la possibilità di muoversi in questa direzione, anche solo attraverso il crowdsourcing o l’interattività. Pensa a tutti quei musicisti che hanno condiviso
la propria musica facendola remixare da altri, o ai mixtape; anche il sampling è diventato più creativo. L’arte della reinterpretazione di musiche non proprie sta crescendo assieme al mondo della realtà virtuale. Non credo sia limitato al cinema o all’interazione coi visual, credo coinvolga tutti i tipi di esperienze, inclusa quella musicale. Oggi tutte le arti sono connesse tra loro perché vengono create sui computer. Sempre più artisti stanno trovando il modo di comunicare tra di loro attraverso questo linguaggio comune nell’intento di creare ambienti completamente immersivi.
Ora una domanda cretina: credi nella differenziazione dei due termini techno e tekno?
Non ne sapevo nulla. Forse c’’è una differenza perché non mi sento un artista tekno, vengo da Detroit e ho sempre interagito con la techno. Quello che penso è che la gente stia diventando troppo attaccata alle etichette della musica che ascolta. Ogni producer, ogni ascoltatore, vibra su frequenze diverse e ascolta in modi diversi; analizzare la musica per #categorie è davvero costrittivo. La musica break è più di un genere solo, la techno per me è una definizione estremamente ampia che può essere intesa principalmente come futuristica.
Stai lavorando a un disco nuovo?
Uno in più (ride), sto sempre lavorando a un disco nuovo perché mi vengono sempre idee quando sono in viaggio col mio computer; a volte nel mio studio mentre suono con gli strumenti, altre durante i live show quando faccio qualcosa che mi suona bene. Non c’è un’intenzione specifica che mi direziona nel tipo di album che voglio produrre. Può succedere che alcuni dischi escano come Plastikman, perché più mentali e ipnotici, e altri come RH perché più estroversi.