‘Incontro con gli dei’: l'intervista storica ai Led Zeppelin (parte II) | Rolling Stone Italia
News Musica

‘Incontro con gli dei’: l’intervista storica ai Led Zeppelin (parte II) | parte I

La seconda parte dell'intervista del 1975, quando Jimmy Page e Robert Plant invitarono Rolling Stone in tour, tra suite e castelli scozzesi, per vedere cosa fa volare gli Zeppelin

Foto di Michael Putland/Getty Images

Foto di Michael Putland/Getty Images

Continua dalla prima parte

Jimmy, una volta mi hai detto che pensi che la tua vita sia un gioco d’azzardo. In che senso?
Page: «Ti spiego perché: ero in una band, non dico il nome perché non è importante, ma era quel tipo di band in cui andavi in giro a suonare con il furgone. L’ho fatto per due anni, subito dopo aver finito gli studi, ho cominciato a fare dei bei soldi, ma mi stavo ammalando e quindi sono tornato al college a studiare arte. Un cambio totale. Ecco perché dico che è possibile. Ero totalmente dedicato alla mia chitarra e a suonare, ma sapevo che farlo in quel modo mi avrebbe ucciso. Ogni due mesi mi veniva la febbre, quindi per i 18 mesi successivi sono andato avanti con 10 dollari a settimana, cercando di recuperare le forze. Ma continuavo a suonare».

Plant: «Lascia che ti racconti la storia della canzone Ten Years Gone sul nostro nuovo album. Prima di entrare nei Led Zeppelin, lavoravo tantissimo, mi rompevo veramente il culo. Un giorno, una ragazza che amavo molto mi ha detto: “Io o i tuoi fan”. Non che avessi dei fan al tempo, però le ho risposto: “Mi spiace, non posso fermarmi”. Immagino che oggi sia felice, abbia una lavatrice nuova che fa tutto da sola e una bella macchina sportiva. Non avremmo più niente da dirci. Probabilmente io potrei anche starle accanto senza problemi. Lei però no, perché le riderei troppo in faccia. Dieci anni se ne sono andati, temo. Eccoti un gioco d’azzardo».

Page: «Io ne ho un’altra: studiavo arte al college e nel frattempo lavoravo come session man. Credimi, per alcuni lavorare come session man in studio è il massimo che si possa desiderare. Io ho rinunciato per entrare negli Yardbirds guadagnando un terzo perché volevo suonare. Non mi sembrava di suonare abbastanza lavorando in studio, anche se facevo fino a tre session al giorno. Stavo diventando una di quelle persone che odio».

Qual era il problema del lavoro in studio?
Page: «Alcune session erano un vero piacere, il problema era che non sapevo mai cosa avrei suonato e con chi. Certamente saprai che ho suonato anche in un disco di Burt Bacharach. È vero. Sapevo solo che mi dovevo presentare in uno degli studi dalle due alle cinque e mezza. A volte era per suonare con qualcuno che ero contento di conoscere, a volte mi dicevo: “Ma che ci faccio qui?”. Era un momento in cui la chitarra era molto in voga e quindi facevo assoli ogni giorno. Poi, quando ha preso piede lo stile alla Stax e i fiati, ho finito per non suonare quasi niente, giusto un riff qua e là e niente assoli. Mi ricordo una volta in cui mi hanno chiesto di fare un assolo su un pezzo rock&roll. Erano due mesi che non ne facevo uno e ho fatto una vera schifezza. Ero così disgustato da me stesso che ho deciso di mollare tutto. Mi stava facendo del male».

Robert Plant. Foto di Dick Barnatt/Redferns

Robert Plant. Foto di Dick Barnatt/Redferns

Come ricordi il periodo con gli Yardbirds?
«Ho ottimi ricordi. A parte un tour in particolare che ci ha quasi ucciso, è stato molto intenso. Musicalmente era un grande gruppo con cui suonare, non rimpiango nulla di ciò che ho fatto, ogni musicista sarebbe andato di corsa a suonare in una band del genere. Era particolarmente buona quando c’eravamo io e Jeff Beck come chitarre soliste. Poteva diventare davvero qualcosa di eccezionale, ma sfortunatamente non c’è molto materiale registrato di quel periodo. Ci sono Stroll On dalla colonna sonora di Blow Up, che è stata abbastanza divertente, Happenings Ten Years Time Ago e Daisy. Non passavamo molto tempo in studio. Ovviamente c’erano alti e bassi, tutti mi chiedono sempre di parlare delle liti e dei conflitti personali, ma non credo che la situazione sia mai diventata davvero insostenibile. Se presentato nel giusto modo, un disco di reunion degli Yardbirds potrebbe essere una buona cosa. Anche se Jeff non me lo vedo proprio a fare una cosa del genere. È davvero un tipo divertente».

Nella mia casa un uomo è stato decapitato e ogni tanto si sente il rumore della testa che rotola
Jimmy Page

Vivi nella villa appartenuta un tempo ad Aleister Crowley?
Page: «Sì, era sua, ma prima di lui ha avuto altri due o tre proprietari. Prima è stata anche una chiesa, che è stata bruciata e rasa al suolo con dentro tutti i fedeli. Sono successe molte cose strane in quella casa che non hanno niente a che vedere con Aleister Crowley. Ci sono sempre state vibrazioni negative. Un uomo è stato decapitato lì dentro e ogni tanto si sente il rumore della testa che rotola dalle scale. Io non l’ho mai sentita, ma un mio amico sì. Ed è uno assolutamente lucido e sobrio che non si è mai interessato alle storie di fantasmi. Pensava che fossero i gatti che andavano in giro per la casa. Io non c’ero e così ha chiesto al personale di servizio: “Perché non chiudete i gatti fuori la notte? Vanno su e giù per le scale e fanno un gran casino”. E loro: “I gatti vengono chiusi in una stanza ogni sera”. Poi gli hanno raccontato la storia della casa. Succedevano cose strane anche prima di Crowley, poi quando è arrivato lui ci sono stati suicidi, gente che è stata portata in manicomio…».

John Bonham. Foto di Dick Barnatt/Redferns

John Bonham. Foto di Dick Barnatt/Redferns

E tu non hai mai avuto contatti con qualche fantasma?
Page: «Non ho detto questo, ho solo detto che non ho sentito la testa rotolare giù dalle scale».

Cosa ti attrae di quel posto?
Page: «L’ignoto. Sono attratto dall’ignoto, ma prendo le mie precauzioni. Non mi lancio in esplorazioni a occhi chiusi».

Ti senti sicuro in quella casa?
Page: «Sì. Tutte le mie case sono un po’isolate, e a me piace stare da solo. Mi piace anche stare vicino all’acqua. La villa di Crowley è a Loch Ness, in Scozia. Ne ho un’altra nel Sussex dove passo la maggior parte del tempo. È abbastanza vicina a Londra ed è circondata da un fossato. Potrei raccontarti tante cose, ma non voglio far venire idee in testa alla gente. Sono successi episodi molto strani ma sono rimasto sorpreso dalla mia calma. Non voglio parlare delle mie credenze e del mio rapporto con la magia. Non sono George Harrison o Pete Townshend, non voglio convincere nessuno a seguire quello in cui credo. Sono profondamente convinto che se le persone sono in cerca di qualcosa e vogliono trovare delle risposte, lo devono fare da sole».



Hai visto Eric Clapton con la sua nuova band?
Page: «Oh cazzo, Eric. Sì, certo, l’ho visto suonare con la sua nuova band e anche al concerto al Rainbow. Almeno sul palco con lui c’era gente con le palle. C’erano Townshend e Ronnie Wood, Jimmy Carsten e Jim Capaldi. Pearly Queen è stata incredibile. Speravo che dopo quell’esperienza avrebbe detto: “Ok, voglio suonare solo con musicisti inglesi”. Da quando suona con gli americani è diventato sempre più pigro. Sono andato a trovarlo dopo il concerto ed è evidente che c’è rimasto male, perché i Derek & the Dominos non sono mai stati capiti. Deve essere stata dura per lui sopportare il fatto che non hanno avuto lo stesso successo dei Cream. Per i Led Zeppelin la chiave del successo è il cambiamento. Abbiamo fatto il primo disco, poi il secondo che non aveva niente a che vedere con il primo, poi il terzo totalmente diverso e via così. Questo è il motivo per cui abbiamo avuto solo recensioni negative: nessuno riesce a spiegarsi perché abbiamo fatto Led Zeppelin II e poi Led Zeppelin III con pezzi acustici come That’s the Way. Non lo capiscono. Io e Robert siamo andati a Bron-Yr-Aur nel Galles e abbiamo scritto della canzoni. Cristo, quello era il materiale che avevamo e quindi lo abbiamo inserito nel disco. Non abbiamo mai pensato: “Dobbiamo fare rock&roll duro perché abbiamo un’immagine da mantenere”. Di solito con i nostri album ci vuole almeno un anno perché la gente capisca cosa stiamo facendo».



Perché siete andati a Bron-Yr-Aur a registrare il terzo album?

Page: «Era arrivato il momento di fare un passo indietro. Fare il punto della situazione e non perderci. I Led Zeppelin stavano diventando grandi e volevamo che il resto del nostro viaggio fosse piacevole. Per questo siamo andati a rifugiarci in montagna, dove è nata la versione eterea di Page e Plant. Volevamo stare tranquilli e in pace e fare un po’ di blues californiano, e abbiamo trovato l’ispirazione in Galles invece che a San Francisco. Bron-Yr-Aur è un posto fantastico, il nome vuol dire: “La mammella dorata”. Si trova in una piccola valle illuminata dal sole. Nel nostro ultimo album c’è un pezzo acustico che Jimmy ha composto lì e che descrive perfettamente le nostre giornate passate a girare per la campagna con le jeep. È stata una buona idea. Avevamo scritto la maggior parte del secondo album in tour ed è per questo che al pubblico è piaciuto, nonostante quello che hanno scritto i critici. Quello che ha scritto la recensione per Rolling Stone, tanto per fare un esempio, è un musicista frustrato. Forse sono in preda a uno dei miei trip di egocentrismo, ma credo che le persone siano infastidite dal talento. Non mi ricordo neanche le critiche che abbiamo ricevuto, so solo che per quanto mi riguarda era un buon album scritto durante un tour, anzi era persino un grande album. Il terzo è l’album degli album. Se qualcuno ci aveva etichettato come una band heavy metal, con quello lo abbiamo distrutto».

Però c’erano dei pezzi acustici anche nel primo album
Page: «Esatto! Quando è uscito Led Zeppelin III, Crosby, Stills & Nash si erano appena formati e, siccome in quel momento le chitarre acustiche avevano preso il sopravvento nel rock, ecco improvvisamente la recensione: “I Led Zeppelin fanno un disco acustico!”. Ho pensato: “Cosa hanno in testa e soprattutto nelle orecchie?”. Nel primo album c’erano tre pezzi acustici e nel secondo due».

John Paul Jones. Foto di Dick Barnatt/Redferns

Jimmy, hai parlato della “corsa contro il tempo”. Come ti vedi a 40 anni?
Page: «Non so se ci arriverò, non so neanche se arriverò a 35. Dico sul serio, non lo so. Davvero, sono serio. Non credevo nemmeno di arrivare a 30».

Perché?
Page: «Era una paura che avevo. Non di morire, solo di…aspetta un attimo, lasciami spiegare… Sentivo che non sarei arrivato a 30 anni. Era una cosa congenita. Ora ho superato i 30, ma non me l’aspettavo. Non ho mai avuto incubi o cose del genere, non ho paura della morte, è il mistero più grande. Ma tutto nella vita è una corsa contro il tempo e non puoi mai sapere cosa succederà. Per esempio, mi sono rotto un dito, avrei potuto rompermi la mano e rimanere fuori uso per due anni».

Robert, i tuoi testi sono stati descritti come “parole senza senso da antiquato figlio dei fiori”.
Plant: «Cosa vuole dire “antiquato figlio dei fiori”? L’essenza di quel periodo era il desiderio di pace, tranquillità e idillio. È quello che vogliono tutti. Allora perché le mie sono “parole senza senso da antiquato figlio dei fiori”? Se è così, continuerò a essere un antiquato figlio dei fiori. Lavoro molto sui testi, ma non credo che tutto quello che scrivo debba essere esaminato e giudicato così attentamente. Black Dog è solo una canzone sfacciata del tipo “facciamolo in bagno”. Non importa il significato finché ottengono un risultato. La gente le ascolta. Altrimenti puoi cantare il menu del Continental Hyatt House».

Jimmy Page. Foto di Dick Barnatt/Redferns


Quanto è stata importante Stairway to Heaven per voi?
Page: «Per me cristallizza l’essenza stessa della band. C’è dentro tutto. Mostra la band al suo massimo, una band vera, unita. Non parlo degli assoli, semplicemente c’è dentro tutto. Non abbiamo mai voluto pubblicarla come singolo. Ogni musicista sogna di fare qualcosa che rimanga nel tempo, e credo che noi l’abbiamo fatto con Stairway. Pete Townshend probabilmente pensa di aver fatto lo stesso con Tommy. Non so se avrò la capacità di fare qualcosa di meglio. Devo lavorare duramente per arrivare a quel livello di totale e coerente grandezza. Non credo che ci siano molti artisti in grado di arrivarci. Forse una: Joni Mitchell. La ascolto sempre quando sono a casa, Joni Mitchell. Adoro il suo album Court and Spark e ho sempre sognato di vederla cantare con una band. Ha il grande talento di riuscire a prendere una situazione o un evento che le è capitato, fare un passo indietro, cristallizzarlo e poi raccontarlo in una canzone. Mi fa venire le lacrime agli occhi. È così dannatamente misteriosa. Mi ritrovo molto quando canta: “Adesso i vecchi amici si comportano in modo strano / Scuotono la testa / Dicono che sono cambiata”. Mi chiedo quanti dei suoi vecchi amici le siano rimasti, me lo chiedo di ogni musicista famoso. Ci sono poche persone che io posso definire come dei veri amici, e sono molto molto preziosi per me».

E tu, Robert?
«Sono abbastanza soddisfatto, ho intorno le stesse persone che ho sempre avuto. Sono i resti del mio passato beatnik. Sto molto bene con i miei vecchi amici, mi conoscono da tanto tempo e non sono sconvolti da quello che è successo nella mia vita. A volte mi prendono in giro, ricordando che devo due dollari a qualcuno dal ’63, quando ero un cantante blues senza soldi. Va bene. Sono felice»

C’è qualche chitarrista americano che vi piace?
Page: «Abbiamo perso il migliore di tutti, Jimi Hendrix. Anche l’altro che mi piaceva, Clarence White, è morto. Era geniale. Ha uno stile totalmente differente, ma mi piace quello che ha suonato nel singolo di Maria Muldaur Midnight at the Oasis, Amos Garrett. Lui è uno che segue le tracce di Les Paul, e Les Paul era il numero uno. Nessuno di noi avrebbe mai fatto niente, se lui non avesse inventato la chitarra elettrica. Un altro è Elliott Randall, che ha suonato nel primo disco degli Steely Dan. Un grande. Tra le band, i Little Feat sono i miei preferiti. L’unico termine che non accetto è “genio”. È stato usato troppo liberamente nel rock&roll. Se consideri le strutture melodiche composte dai musicisti classici e le paragoni con quelle di un disco rock, capisci che c’è un bel po’ di strada da fare. Nella musica classica esiste uno standard che permette di usare la parola “genio”, ma se provi a farlo nel rock&roll stai camminando su un filo. Per me il rock&roll è musica folk. Musica della strada, che non viene insegnata a scuola. Non ci sono geni nella musica da strada, ma questo non vuol dire che non possano essere molto bravi. Artisticamente il rock&roll ti ridà indietro quello che tu gli metti dentro. Nessuno te lo può insegnare, sei da solo. È questo che lo rende così affascinante».


Ultima domanda: il figlio del presidente Gerald Ford ha detto che i Led Zeppelin sono il suo gruppo preferito. Che ne pensate?
Plant: «Credo che sia veramente brutto che non ci abbiano ancora invitato alla Casa Bianca almeno per prendere un tè. Forse Jerry ha paura che combiniamo qualche casino. Se avessimo avuto un addetto alle pubbliche relazioni tre tour fa, adesso il figlio di Ford sarebbe in tour con noi. Mi ha fatto piacere sapere che alla Casa Bianca ascoltano la nostra musica. È bello sapere che hanno dei buoni gusti».

Un’ultima dichiarazione?
Page: «Sto ancora cercando un angelo con le ali spezzate. Non si trova facilmente. Specialmente se alloggi al Plaza Hotel»