Quando agli albori del nuovo millennio sono deflagrati i White Stripes, l’abbiamo capito subito che tipo era Jack White: uno che arriva sulla scena con l’aria di chi passa di lì per caso e ti piazza l’album del decennio, traghetta la chitarra elettrica dal secolo scorso all’anno zero, ridefinisce il concetto stesso di rockstar. È il 2018, i White Stripes si sono sciolti e il signor White – sempre con quella faccia un po’ così, sempre con l’aria di chi passa di lì per caso – ci spiega una volta per tutte come si sta a un concerto, risolvendo già che c’è il dilemma capitale tra vivere e postare: ai concerti si vive. Per postare c’è sempre tempo.
Il 23 marzo esce Boarding house reach, il terzo disco solista del rocker di Detroit, anticipato in queste settimane dai singoli Connected by love, Respect Commander e, ultimo in ordine di pubblicazione, Corporation. A seguire partirà un tour che vede come tappe europee Londra, Amsterdam, Parigi, Madrid e Lisbona. E che sarà rigorosamente phone free: niente telefoni, niente macchine fotografiche, niente ansia da social. Una “100% human experience”, ha promesso White invitando i fan a “levare lo sguardo dai loro gadgets per godersi l’esperienza della musica DI PERSONA” (il caps lock, come da comunicato ufficiale della Third Man Records, a indicare che il nostro ci tiene PROPRIO TANTO).
Se si trattasse di un semplice invito, verrebbe sicuramente disatteso (memorabile a questo proposito il cazziatone di Adele a una fan dal palco dell’arena di Verona: “Puoi smettere di filmare? Perché io sono veramente qui, nella vita reale” aveva detto smettendo di cantare). Stavolta invece White si affiderà a Yondr, una startup made in Portland che scherma gli smartphone per tutta la durata del concerto. Perché ai concerti, questo lo sappiamo tutti, gli smartphone sono il male: non solo e non tanto per ragioni di violazione del copyright, quanto per quella nebulosa fluttuante di piccoli schermi illuminati che spezza la premessa scenica del buio, smorza gli applausi (per i quali, se siete abbastanza vecchi da ricordarlo, servono entrambe le mani), impedisce l’immediatezza della fruizione.
Lo sappiamo, eppure non riusciamo a farne a meno: una foto giusto per, un video della canzone più bella e via, la magia è svanita. Ma se l’animo umano, perversamente, fa di tutto per rovinarsi le esperienze migliori della vita, la tecnologia no, quella non fallisce né perdona. E infatti Yondr funziona così: subito dopo il controllo biglietti ci si separa senza rimpianti dal telefono infilandolo in una bustina che viene sigillata da un addetto con un’apposita chiave. Accantonato lo strumento del demonio, il pubblico è libero di concentrarsi sul qui e ora dedicandosi a quelle cose un po’ vintage tipo applaudire, perdere la voce, conoscere il tizio di fianco e divertirsi. Per chi proprio non ce la fa a sentire il telefono che vibra e fregarsene, sarà istituito un angolino per ansiosi e emergenze dove in qualsiasi momento si può sbloccare il cellulare, pena perdere il posto e la visuale faticosamente guadagnati. E a fine concerto la bustina viene riaperta, lo smartphone restituito e vissero tutti felici e contenti.
Quella di White potrebbe sembrare la battaglia di retroguardia di un misoneista convinto, un fanatico dell’analogico, uno che ha inciso il disco a casa con un mixer e un registratore e ha fatto dello stile retrò il proprio (elegantissimo, inconfondibile) marchio di fabbrica. E invece c’è chi è pronto a giurare che Yondr sia la tecnologia del futuro e la politica del phone ban la nuova tendenza per quanto riguarda la musica dal vivo: di recente hanno usato lo stesso sistema anche Alicia Keys, Donald Glover, i Guns N’ Roses, oltre che gli stand-up comedians Louis CK, Dave Chappelle (lui lo scopritore di Yondr, nel 2015) e Chris Rock.
Anzi, si prefigura l’estensione di Yondr anche a ambiti diversi dall’intrattenimento, dalle aule dei tribunali a quelle feste privatissime di cui sarebbe meglio non restasse memoria fotografica. Ma a prescindere da quello che sarà il futuro della startup, è sicuramente contemporaneo, anzi centrale nella nostra concezione di contemporaneità, il quesito di fondo che White pone al suo pubblico: davvero condividere un’esperienza, come se il tasto “share” fosse il crisma che ne attesta la reale esistenza, è più importante che viverla e goderla appieno? Davvero siamo disposti a pagare per un concerto per poi guardarlo dallo schermo del telefono?
E non ultimo, davvero pensiamo che le nostre misere fotine e i nostri video stentati possano in qualche modo rendere giustizia alla realtà, all’arte, a quello che sta succedendo sul palco? Chiunque abbia tentato di riprendere la superluna con uno smartphone rimediando solo uno sparuto puntolino bianco su fondo nero lo sa: spesso la foto migliore è quella che non scatti. Vale per la luna, per i concerti e probabilmente per un sacco di altre cose.