Una notte del 2003 Jack White ha tirato un pugno in faccia a un uomo. Anzi a più di uno, secondo il rapporto della polizia. Era il culmine di una faida tra i leader di due band garage-rock (l’altro è Jason Stollsteimer dei Von Bondies, ndr) quando le faide e il garage rock erano ancora una cosa importante. White si è arrabbiato quando la stampa ha parlato di quella rissa al club Magic Stick di Detroit. Ha mandato delle mail rabbiose e a volte ha anche lasciato il palco durante i concerti. Ma non si è mai scusato. Ha tirato qualche pugno: «Certo, come Johnny Cash», dice, seduto su una sedia a dondolo rivestita di tappezzeria verde oliva nel suo ufficio senza finestre, nel quartier generale della Third Man Records a Nashville.
Dietro di lui, seduto a gambe incrociate su una panca, c’è uno scheletro a grandezza naturale. Ogni tanto Jack si siede nella stessa posizione e l’effetto è straniante: «Oppure Sid Vicious, o Jerry Lewis». Sbotta in una disarmante risata, rivelando una fila di piccoli denti irregolari, poi si corregge: «Jerry Lee Lewis, volevo dire Jerry Lee Lewis! Se dai del figlio di puttana a Johnny Cash in un bar, non ti aspetti una reazione? Oppure prova buttare a terra la moto di un Hell’s Angel e vedi cosa succede. È stupido insultare un altro essere umano e non aspettarti una risposta».
Jack White ha un carattere difficile? «Con me ogni singola emozione è all’estremo: felicità, gioia, gelosia, rabbia, esaltazione, passione, desiderio. Quando sono in modalità creativa faccio in modo che niente possa bloccarle. Sono sicuro che, se qualcuno avesse interrotto Michelangelo mentre dipingeva, si sarebbe arrabbiato e nessuno avrebbe detto nulla».
White indossa jeans neri, scarpe scamosciate e una maglietta a maniche lunghe con uno strano collo alla Star Trek. Dopo un breve flirt con una pettinatura rockabilly, i suoi capelli neri sono tornati alla lunghezza dei tempi dei White Stripes. Il contrasto con la sua pelle chiarissima sembra quasi un effetto speciale. «Ho voluto prendere punk, hip hop e rock&roll e farli passare attraverso una macchina del tempo per proiettarli nel 2018», dice a proposito del suo nuovo album, Boarding House Reach. «Alcune emozioni umane sono state demonizzate nel corso degli anni, come se non fossero mai esistite. Ma non è possibile: senza la rabbia, l’istinto di vendetta e altre emozioni negative non avremmo vinto la Seconda Guerra Mondiale», dice facendo un tiro da un cigarillo e buttando la cenere in un raffinato portacenere di argento e vetro. Ha voglia di dire tutto quello che pensa, anche in un’era in cui le persone famose sono spinte dalla comunicazione digitale a non farsi scappare nemmeno una sillaba che possa suonare provocatoria, e in cui fare un’intervista si riduce generalmente a raccogliere una sequenza di dichiarazioni sempre più consapevoli e moderate. A Jack White non frega niente del tweet sarcastico che potreste scrivere su di lui in questo preciso momento e se non gli dite le cose in faccia vi darà del codardo.
Lui non è un codardo. In generale non ha paura di niente. La dimostrazione è nell’album Boarding House Reach, un disco decisamente fuori di testa in cui a 42 anni White fa la musica più strana che abbia mai fatto: cori alla Dylan del periodo gospel, pianoforte jazz, drum machine, sintetizzatori, congas, passaggi spoken-word, cambi di tempo improvvisi e un’atmosfera generale di follia che ci ricorda quanto Captain Beefheart sia da sempre uno dei suoi punti di riferimento. Non a caso, uno dei tesori custoditi nel suo ufficio è una vecchia foto promozionale di Beefheart insieme alla sua Magic Band.
C’è una considerazione da fare: Jack White è giunto a un momento preciso della sua carriera, quello in cui rischia di venire sottovalutato. Tra dieci anni sarà considerato senza alcun dubbio una leggenda. Facciamo un salto in avanti allora. Anche se siete sicuri che il rock sia morto (e non lo è), nessun altro musicista di questo secolo ha fatto meglio di Jack White nel cercare di rianimare il cadavere. Senza contare il fatto che è il responsabile dell’unico riff di chitarra degli ultimi anni diventato un inno da stadio in tutto il mondo. Solo con i sei album dei White Stripes, e senza contare i Raconteurs, i Dead Weather, i suoi lavori solisti e una serie infinita di produzioni, si è guadagnato un posto tra i classici del rock.
Inoltre: nonostante sia totalmente old-schoool (lui stesso si fa chiamare “Mr. Old Timey” e “Mr. Retro”), non ha mai smesso di evolversi. Ha sempre una nuova direzione in cui andare, ed è pronto a reinventarsi in ogni momento perché è convinto che sia sempre meglio per un artista rendersi le cose difficili. Da un punto di vista creativo le ragioni sono abbastanza chiare (“Devi avere un problema / se vuoi inventare uno strumento per sistemare le cose”, ha cantato in Effect and Cause del 2007), un po’ meno da quello psicologico. L’educazione cattolica? Forse.
Da qualche parte c’è ancora una foto del piccolo Jack White, che al tempo si chiamava ancora Jack Gillis, insieme a Papa Giovanni Paolo II. In lui c’è certamente una tendenza all’autoflagellazione, come dice in Seven Nation Army: «Sanguino di fronte al Signore». Ha a che fare con il fatto di essere il settimo maschio dei dieci figli, di due genitori ormai troppo stanchi per dare regole al più piccolo? Forse. Da ragazzino Jack White ha preso in considerazione anche di entrare nell’esercito o di farsi prete, e alla fine ha fondato una società in cui gli impiegati indossano uniformi. Una cosa che non sembra dare fastidio a nessuno, a parte il conto in lavanderia.
Aprendo la Third Man Records, Jack White è diventato il capo della propria etichetta discografica e quasi ha nostalgia dei tempi in cui le multinazionali gli impedivano di fare quello che voleva: «L’etichetta non te lo permette!», dice a voce alta, «Che bello avere questo tipo di problemi! Quanto è facile ribellarsi e fare cose nuove. Sono cresciuto nell’era della musica indipendente in cui non c’erano regole e ho sempre creato seguendo le limitazioni che mi davo io». I White Stripes, ovviamente, erano quello che lui stesso ha definito “la liberazione di imporsi dei limiti”. La band si basava solo su tre elementi: la voce di Jack, la sua chitarra e la batteria della sua ex moglie Meg, spesso incompresa e sottovalutata e, a volte, anche suonata con una mano sola. Regole che a volte hanno rasentato il masochismo, o la patologia. Una volta ha raccontato a Nigel Godrich, produttore dei Radiohead, che stava remixando un album dei Dead Weather senza usare sistemi automatici, il che voleva dire che lui e il suo tecnico del suono dovevano fare tutto a mano in tempo reale: «Dopo due minuti, magari, ci rendevamo conto di esserci dimenticati il fottuto riverbero nella voce durante il ritornello, e dovevamo ricominciare da capo». Il primo mixer automatico è stato creato nel 1973 o giù di lì. «Ma perché l’hai fatto?», gli ha chiesto Godrich. Jack White non sapeva cosa rispondere: «Perché dovevo. Dentro di me ho bisogno di sapere che ho fatto le cose nel modo più difficile possibile».
Sono cresciuto nell’era della musica indie, in cui non c’erano regole
Recentemente ha ricevuto un colpo basso da Chris Rock, che ha fatto una session alla Third Man. «A nessuno importa come registri un pezzo», gli ha detto. Scherzava, ma non troppo. «Vorrei che non lo avesse mai detto», dice White scuotendo la testa. «Mi ha fatto male, perché io ho costruito la mia creatività artistica intorno a questo. Anche se so che ha ragione: a nessuno frega niente. Persino i musicisti se ne fottono».
A volte, dice scoppiando in una risata, fa vedere ai “musicisti moderni” le sue attrezzature, i registratori a nastro, la sua console Neve originale, e si sente rispondere: «Io ho un computer». Non possono essere state solo le parole di Chris Rock. Forse sarà anche l’età o l’irrequietezza, ma Jack White sta cominciando a mollare. «Con questo album ho raggiunto il culmine. Mi interessa il modo in cui suona, non tanto come è stato registrato».
Il che non vuol dire che non si sia imposto un sistema complesso e arbitrario di regole. Ha iniziato a registrare demo in un appartamento in cui ha ricreato lo studio che aveva allestito in casa quando era al liceo, usando un registratore a quattro tracce e sforzandosi di scrivere le canzoni tutte nella sua testa, senza usare strumenti. Poi è entrato in studio a New York e a Los Angeles per registrare con musicisti che non ha mai visto prima, alcuni presi dalla band che accompagna dal vivo diversi rapper, tra cui Kendrick Lamar. «In alcuni pezzi ci sono tre o quattro batteristi diversi», dice. Alla fine è tornato a Nashville per «mettere tutto insieme in una specie di Frankenstein», come dice il suo amico Ben Swank, uno dei capi della Third Man. «Sembrava ispirato a fare qualcosa di diverso», spiega il suo ingegnere del suono Joshua Smith.
Come sempre ha registrato tutto su nastro analogico, ma per editare ha usato Pro Tools, uno strumento digitale che fino a non molto tempo fa definiva “una truffa”. Erano gli anni in cui entrare in un mondo dove la tecnica musicale veniva confinata al click di un mouse gli sembrava una cosa “spaventosa”. Ha anche abbandonato le vecchie chitarre di seconda mano recuperate al banco dei pegni che ha usato per anni. È cominciato tutto quando ha visto un’intervista in cui Eddie Van Halen promuoveva il suo ultimo modello Wolfgang Special: «Volevo una chitarra che non mi combattesse contro».
«Il tipo di discorso con cui sono in totale disaccordo», dice White. «Ecco perché ho scelto di usare proprio quella». Ha mandato Joshua Smith a comprare una Wolfgang Special completa di amplificatore modello 5150 (l’ampli non è durato molto) e si è anche procurato il modello firmato da St. Vincent («Adoro il fatto che abbia fatto una chitarra per donne») e anche una Jeff “Skunk” Baxter. Quando ha sentito le sue dita scorrere per la prima volta sul manico, è rimasto sbalordito: «Se solo gli
altri sapessero quanto è difficile suonare quelle chitarre schifose!».