A febbraio, John Cale ha ritirato il Grammy per la carriera a nome di tutta la band, i Velvet Underground. Ci sono i video su Youtube di lui sul Red Carpet che risponde alle domande dei giornalisti. Video che in tutta sincerità mettono solo tristezza, non tanto perché è rimasto praticamente l’unico della formazione originale a essere ancora in vita, ma piuttosto perché le domande idiote dei giornalisti glielo fanno continuamente notare. «Allora, è l’unico a ritirare il premio??» chiede un mestierante dell’informazione al musicista gallese, che risponde «Purtroppo, sì» a metà fra l’affranto e l’imbarazzato.
Il motivo della premiazione in parte è dovuto al primo album della band, The Velvet Undreground & Nico, il cui cinquantesimo compleanno cade proprio quest’anno. Mezzo secolo da uno dei dischi che, una volta colonizzati scaffali e giradischi di proprietà dei “capelloni” di mezzo mondo (processo che ha richiesto un tempo inspiegabilmente lungo), ha reso irriconoscibile il rock per come lo si conosceva prima, aprendo con vent’anni di anticipo spiragli sull’alt rock e con dieci sul punk. È stato prima l’avanguardia e poi inevitabilmente un classico. Qualcosa che per quanto sia stata fondamentale, rimane retaggio del passato.
E Cale potrebbe tranquillamente camparci, di rendita, senza più fare un suo disco solista ma limitandosi a organizzare grandi tour celebrativi soltanto sul materiale dei primi due album con Lou Reed, Nico e amici. Lo ha anche fatto quest’anno, in occasione dei cinquanta dell’album, ma sarebbe semplicemente in controsenso con il modus operandi del soggetto e con il motivo per cui viene scelto per un evento tanto importante quanto quello di venerdì a Fabrica.
Nel sontuoso giardino della villa veneta della famiglia Benetton riconvertita in un efficace centro di ricerca sulla comunicazione, l’ex Velvet Underground si è esibito nel primo concerto nella ventennale storia della struttura, che già in sé è un esempio pulsante di spinta continua alla ricerca e alla sperimentazione. L’idea che sta dietro a Fabrica è infatti quella di dare a giovani menti creative (una quarantina di ragazzi, da ogni angolo del mondo) i mezzi e le risorse per realizzarsi in ogni ambito delle arti comunicative—dalla musica all’immagine, dal design alla scrittura. Giovani e sconosciuti proprio come lo era Tadao Ando, l’architetto scelto nel 1994 da Luciano Benetton per ampliare e ridisegnare in chiave minimalista la villa veneta di Catena di Villorba. Qualcuno che all’epoca era un perfetto signor nessuno, senza uno straccio di laurea e che oggi disegna musei e gallerie in tutto il globo. Un fil rouge invisibile, quello della continua ricerca del nuovo e del meglio, che attraversava trasversalmente il luogo, la sua storia e le persone presenti sotto e sopra il palco venerdì.
Chi si aspettava quindi una tracklist nostalgica e accomodante da parte di Cale ha frainteso del tutto il personaggio, oltre che la natura dell’evento. Attingendo dai suoi dischi solisti più apprezzati per la tensione verso il futuro, Cale e il suo ensemble (batteria, basso e chitarra con libertà di concedersi anche spippolate di synth e campionatori) ha mostrato al migliaio di fan della prima e ultima ora di essere ancora quello di una volta. Se non addirittura meglio. Pare anche che, fra una Chinese Envoy vestita di percussioni apposta per il live e una Ship Of Fools , John, 75 anni compiuti a marzo, abbia suonato anche pezzi dal nuovo album. Splendidi frammenti elettronici tratti da un’opera di cui ancora non si sa nulla ma che già ti spiattella in faccia la dura verità. Se smettono di venirti buone idee, non dare la colpa all’età.