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Jonny Greenwood dei Radiohead contro «chi mette a tacere gli artisti solo perché sono ebrei israeliani»

Attaccato dagli attivisti per i concerti con Dudu Tassa, il chitarrista spiega perché è giusto e normale esibirsi in Israele con un repertorio «che rende onore a una cultura condivisa» con musicisti progressisti che «corrono molti più rischi» di quelli che chiedono il boicottaggio

Foto: Shirlaine Forrest/WireImage/Getty Images

Jonny Greenwood dei Radiohead collabora da tempo con Dudu Tassa, polistrumentista israeliano col quale ha inciso l’album Jarak Qaribak. Con lui si è esibito lo scorso 26 maggio a Tel Aviv, partecipando il giorno prima a una manifestazione che chiedeva il rilascio degli ostaggi israeliani in mano ad Hamas e nuove elezioni in Israele. Greenwood, per la cronaca, è sposato con Sharona Katan, un’artista israeliana la cui famiglia ha perso nel conflitto con Hamas un nipote impegnato nell’esercito israeliano.

Gli attivisti pro Palestina hanno bollato il concerto di Greenwood come un caso di artwashing, ovvero l’uso di una forma d’arte per distrarre da o persino legittimare azioni negative. Greenwood è finito nel mirino di BDS, il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele di cui è un gran sostenitore, tra i tanti, Roger Waters.

«Esibirsi nell’Israele dell’apartheid, che brucia vivi i rifugiati palestinesi a poca distanza da lì, a Gaza, è profondamente immorale e copre un genocidio», si legge sul sito di BDS. «I palestinesi condannano inequivocabilmente il vergognoso artwashing fatto da Jonny Greenwood del genocidio di Israele. Chiediamo una pressione pacifica e creativa sulla sua band, i Radiohead, affinché prenda le distanze in modo convincente dalla palese complicità nel crimine dei crimini» (in passato i Radiohead, che si sono esibiti più volte in Israele, sono stati al centro di una simile polemica).

Greenwood ha risposto con un post in cui spiega che in estate suonerà ai festival europei con Dudu Tassa e i Kuwaitis. «Credo che un progetto artistico che unisce musicisti arabi ed ebrei sia utile. E che sia altrettanto importante un progetto che ricordi a tutti che le radici culturali ebraiche in Paesi come l’Iraq e lo Yemen risalgono a migliaia di anni fa».

Il problema, continua Greenwood, è che «ogni volta che si definisce “importante” un’iniziativa artistica, la si prende troppo seriamente. Si tratta in realtà solo di musicisti provenienti da tutto il Medio Oriente che si rispettano, che lavorano superando le frontiere che li separano, che condividono l’amore per il vasto catalogo di canzoni arabe, non importa se scritte da compositori musulmani, ebrei o cristiani».

«Altri invece scelgono di credere che questo tipo di progetto sia ingiustificabile e chiedono di mettere a tacere questo o qualsiasi altro progetto artistico fatto da ebrei israeliani. Non posso unirmi a questo appello: mettere a tacere i cineasti/musicisti/ballerini israeliani quando il loro lavoro va in tour all’estero – soprattutto quando avviene su sollecitazione dei loro colleghi cineasti/musicisti/artisti occidentali – mi pare ben poco progressista. Anche perché gli artisti di cui parliamo sono invariabilmente i membri più progressisti» delle società in cui vivono.

Non solo. Greewood sottolinea anche il fatto che questi artisti «sembrano più coraggiosi e corrono molti più rischi di quelli che stanno cercando di fermarci o cercano di attribuire una motivazione sinistra all’esistenza della band. Non ce n’è una: siamo musicisti che rendono onore a una cultura condivisa».

È vero, continua Greenwood, che nessuna espressione artistica è importante quanto «fermare la morte e la sofferenza che ci circondano, ma non fare nulla è un’opzione peggiore. E mettere a tacere gli artisti israeliani perché sono nati ebrei in Israele non sembra un modo per raggiungere un’intesa tra le due parti di un conflitto apparentemente senza fine».

«Ecco perché faccio musica con questa band. Siete liberi di non essere d’accordo con quel che facciamo o di ignorarlo, ma mi auguro che ora capiate qual è la motivazione che ci spinge a farlo e possiate reagire alla musica senza sospetti o odio».

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