«Hanno fatto qualcosa che era difficile immaginare, tranne per qualcuno: loro». In una intervista concessa a La Stampa e pubblicata oggi, Jovanotti parla dei Måneskin e spiega perché li apprezza. A differenza di altri cantanti che sembrano interessati a ostentare il proprio benessere, i quattro di I Wanna Be Your Slave lo fanno per la musica. «Guardandoli nelle prime performance vedi che ci credono, che gli piace, che sono devoti a quello che fanno. Non sono lì per farsi vedere con l’aereo privato o le scarpe fiche, sono lì perché amano la musica. E la verità è più forte di tutto. Se sei autentico, sfondi».
Lorenzo loda anche la capacità dei Måneskin di attrarre un pubblico trasversale: «Ottengono effetti positivi a tutto campo: riescono a far dire ai nostalgici del rock: è tornato il rock. Mentre i ragazzini che non conoscono i Red Hot o i Led Zeppelin scoprono qualcosa di nuovo».
Nella stessa intervista Jovanotti parla anche del successo di Sanremo 2022: «Un Paese che non ha musica dal vivo da più di due anni è un Paese cui è mancato qualcosa di profondo, al di là della giusta questione del settore in crisi. È un bisogno che è rimasto seppellito. E Sanremo è stato perfetto: sono così rari i momenti in cui tante persone decidono di guardare insieme una diretta». La giornalista Annalisa Cuzzocrea gli chiede dei pezzi che «sanno di ripartenza» come L’allegria, Apri tutte le porte, Il boom e La primavera: «Per me è come un dopoguerra. Come la foto di Times Square con i due che si baciano. È la musica di cui sento il bisogno in questo momento».
Oltre a lodare il podio perfetto del Festival, con la vittoria di Mahmood e di Blanco, Jovanotti dice che «nella musica i centri di potere sono caduti. Una volta tutto era in mano alle grandi case discografiche, ora puoi arrivare a 19 anni da una provincia italiana e sfondare con mezzi di produzione accessibili a tutti. Lo stesso vale per la distribuzione, metti il brano su internet e se funziona hai vinto. La disintermediazione della musica ha fatto sì che il talento, le idee si facciano strada senza bisogno di passare da un centro di potere».
E a proposito del suo chiacchierato monologo all’Ariston: «A Sanremo ho sbagliato, non ho spiegato bene perché ho definito Mariangela Gualtieri “un poeta”: dopo aver letto una sua raccolta le avevo scritto, “Cara poeta”, e lei aveva detto che amava essere definita così».
«Su Internet ci sarà sempre qualcuno pronto a indignarsi. Non mi sorprende e anzi mi interessa: sono sintomi, segnali. Lo scontro sulle parole è dato dal fatto che sono tornate al centro. Pensavamo non avremmo scritto più nulla e invece continuiamo a scrivere. E mi interessa molto anche il tema della lingua che cambia. Perché è qualcosa che arriva dal basso, cambia anche se non vuoi, per strada dove la gente la usa. Gli accademici possono intervenire solo dopo, a registrare quanto già successo, non possono guidarla».