“Da sei anni arrivo un pelo in ritardo con il pezzo dell’estate / Giusto a settembre quando tornate tutti belli abbronzati”. Ai primi di giugno, con un videoclip in forma di sketch comico girato tra il letto e il bagno di casa, Nicholas Gigi Fantini detto Egreen racconta la giornata di un rapper che l’estate la odia. Si sveglia vestito di tutto punto: pantaloncini dei Bulls, cappellino girato, magliettone nero con su scritto: “Fare rap non è obbligatorio”. Scritto da lui, marchio Soundfresh che è uno dei suoi “partner” commerciali. Ha una bambola gonfiabile nel letto, “l’ansia a caso e tapparelle giù / chissà se chiudo due concerti a agosto così scendo al sud”. Quindi, dato che “tutti vogliono una fetta / anche se non gli spetta” infila a bella posta due strofe intere di “doppie” in apnea. Per mettere le cose in chiaro e umiliare il rappettaro ultimo arrivato, ché di questo si tratta. “Egreen è nu bucchino de Drago”, lo endorserà giorni dopo il vecchio Speaker Cenzou su Facebook, “Prendevi un paio di bombole d’ossigeno”.
Il video di Egreen, girato da Jacopo Rossini con uno stile più webserie che hip hop, fa 70mila visualizzazioni su YouTube in tre settimane prime. Poche, in assoluto. Ma bisogna considerare che Tranne me, rappato sulla base di Chimes di Hudson Mohawke, è l’annuncio dell’uscita alla fine del mese di un “ep in free download”: A.F.A. (a ferragosto accasato). Buoni, comunque, i commenti sotto il video: “genio”, “top”, “mitraglia!”. Ironici, anche: “Gigi, mi deludi”, scrive Raven, “dov’è finito il divano sporco di roba indefinita che c’era in Tutti d’accordo?”. Alessandro aggiunge: “Ha fatto il cash nel frattempo… avrà la donna delle pulizie”. Ristretta, ma appassionata, la fanbase di Egreen conosce bene il personaggio: nato a Bogotà e cresciuto a Detroit, dopo aver girato mezzo mondo seguendo la famiglia, è approdato a Varese. Musicista “non professionista”, underground, fustigatore di pop-rapstar dell’ultim’ora, Egreen rivendica spesso di aver “lavorato in cantiere” da ragazzo. Ha 32 anni e, come sappiamo da un’intervista ad Alice Castagneri de La Stampa, adesso lavora dieci ore al giorno per una multinazionale tedesca. Oltre al resto.
Egreen è uno dei dieci-cento-mille rapper italiani. Come tutti, è un piccolo imprenditore di se stesso. Da sempre nell’hip hop la dimensione produttiva e quella poetica coincidono, in quella specie di allucinato funzionalismo estetico che è l’Arte del Successo. Nel campo dell’hip hop nazionale Egreen si definisce free agent, usando un linguaggio mutuato dal basket americano. Un cane sciolto. Ha lasciato due anni fa il roster della crew Unlimited Struggle per questioni di “rispetto” (mai chiarite, nemmeno interessanti in fondo). Continua a mantenere contatti molto solidi nell’ambiente. Il suo manager-amico Oliver Dawson è un nome di riferimento per tutta la scena italiana: ex conduttore del programma radiofonico Hip-hopera su RTL, autore di The Flow per DeeJay Television, fa parte del gruppo di ideatori del blog Rapburger, e oggi lavora per TIMmusic. Il booking dei concerti è affidato alla romana Real Vibes, la “Urban entertainment company” fondata da Alessandro Tamburrini detto Dj Baro, già beat maker del Colle der Fomento e di altri storici rapper della Capitale. Tra i beatmaker di Egreen ci sono invece Iamseife e Lvnar, milanesi ed elettronici, nuova scuola. «Non mi ritengo affatto un talebano, o un estremista conservatore dell’hip hop», dichiara ancora a La Stampa, «sono un fan del concetto: soltanto gli stupidi non cambiano mai idea».
Tormentoni da Ombrellone
Il tema del “rap per l’estate”, e più in generale del “pezzo da far uscire al momento giusto”, Egreen l’aveva già trattato quattro anni fa in Tutti d’accordo: “Che palle già settembre ed è finita la pacchia / per sti rappers che fan pezzi da sentire sulla sabbia”. In Tutti d’accordo era citato Fabri Fibra, che ritorna pure in Tranne me per via del titolo. Dello schifo verso i rapper estivi e ballabili Fabri fu originale interprete nel 2010 nella sua Tranne te, dove proclamava con ironia l’avvento di uno scombinato “rap futuristico / step pereppistico”. Il video girato da Cosimo Alemà – regista del più recente rap-movie Zeta – ha fatto 32 milioni di visualizzazioni.
Fabri e i ballerini della coreografia erano rivestiti da capo a piedi dell’ultima collezione adidas. Come i Run Dmc, come il Real Madrid. Sopra le immagini passavano in sovraimpressione le cifre che riassumevano il posto del rap nel panorama mediatico nazionale: “Il web è il primo medium di comunicazione del rap italiano”; “2 network in Italia passano abitualmente rap italiano / 7 network passano musica del passato per metà del tempo”. E ancora: “Il rap ha un pubblico che va dai 12 ai 31 anni”. In definitiva, la certificazione di un mezzo fallimento nella ventennale corsa dell’hip hop (quello vero) alla conquista del centro della pop culture italiana.
Fabri Fibra, la cui cifra nel frattempo si è stabilizzata in un’ininterrotta e spesso ambigua riflessione su quel percorso – mezza dentro, mezza fuori – aveva voluto tornare sul tema l’anno scorso, con Il rap nel mio paese (“un po’ rock un po’ dance un po’ facce ballà / un po’ club un po’ fashion le modelle tra i flash”). Precisando meglio il bersaglio nella rima più esplicita di tutte: “Dieci in comunicazione, non uso mai l’inglese / ora faccio un’eccezione: Fuck Fedez”. E rivelandosi così ottimo profeta, perché il pezzo dell’estate 2016 l’hanno scritto e cantato Fedez e J-Ax: 44 milioni di visualizzazioni Vevo in poche settimane, heavy rotation in tv per via dello spot del cornetto Algida, doppio disco di Platino.
Si può discutere se Vorrei ma non posto sia ancora hip hop e in quale forma. O nient’altro che il consolidarsi di una nuova canzonetta nazional-popolare (è la parola usata nel ritornello), dai toni global-caraibici. Un filone che potrebbe tranquillamente cominciare – volendo – con Kalimba de Luna di Tony Esposito, prodotto dall’elettronico Mauro Malavasi nel 1984, chissà dove altro e quando. A differenza di quanto accadeva nei beati anni ’80, però, Vorrei ma non posto affronta temi sociali, e generalisti. Uno è l’ossessione nazionale per smartphone, social, WhatsApp (soggetto pure di uno dei film campione d’incasso dell’annata, Perfetti sconosciuti). In chiave ironico-negativa: preferisco vivere che postare, ma voi fate un po’ come vi pare. Un accenno di dissing ha per bersaglio Matteo Salvini e gli “esami comprati all’università” (reminescenza, a quanto pare, di certe antiche imprese del Trota figlio di Bossi, quindi politicamente la stessa cosa). Qui lo stile è nel solco del parlar chiaro, che ha portato mesi addietro J-Ax a dissare il sacro Expo milanese e Fedez a scrivere mezza strofa di inno ai 5 Stelle. L’estate al mare, però, è sempre giovane e caciarona modello Cornetto Algida: inventata nei Caroselli con Patty Pravo a metà degli anni ’60, regia dei Fratelli Taviani.
L’estate non era neppure iniziata quando alcuni rettori e professori universitari hanno protestato per via della storia degli “esami comprati”. Matteo Salvini invece twittava che, se le cose stavano così, lui avrebbe abbandonato Algida per i gelati di Sanson e Sammontana. Un’altra sotterranea accusa al duo, venuta da alcuni anonimi colleghi, insinuava che si fossero “comprati le visualizzazioni”, cioè – come abbiamo già capito – l’unità di misura fondamentale (e più ambigua e scivolosa) in questo mondo. Ha risposto J-Ax, sempre su twitter: “Si insinua che Ax/Fedez comprano views. No. Vi abbiamo fatto il culo, ancora”. Il rapper milanese, in salita come star televisiva prima a Rai2 poi come neo giudice del talent Amici, si è rivolto ancora a tutto il mondo del rap quando ha dichiarato a Il Fatto Quotidiano: «Non me ne frega veramente niente di quello che pensa la scena che non mi rispetta (…) questo cazzo di genere, questo mercato l’ho aperto io e altri 3 stronzi».
Che non fa una piega. Ma è soltanto una parte della storia. La realtà è che, rap o non rap, anche il successo di Vorrei ma non posto affonda le sue radici nello stesso network di piccole unità indipendenti che costituisce da qualche tempo l’architettura produttiva dell’hip hop italiano. È prodotto da Newtopia, l’etichetta indipendente fondata nel 2013 dagli stessi J-Ax e Fedez in alternativa – si legge nella presentazione del sito – all’“industria musicale impermeabile alle opinioni e ai cambiamenti che provengono dall’esterno”, e con l’obiettivo di smuovere qualcosa “nel Paese delle mille proposte e degli zero investimenti”. Interessante, comunque, l’uso della retorica politica generica sui motivi della stagnazione italiana. Alla Sony è affidata la distribuzione dei dischi fisici, anche se i fondatori di Newtopia promettono di voler prendersi in carico nel futuro anche questo aspetto. E, a proposito di rapporti con il vecchio business discografico, ha fatto rumore l’uscita di Fedez dalla Siae, in favore di Soundreef.
Tutto il resto è affidato al gruppo di lavoro che ha realizzato LA canzone per l’estate dell’anno scorso: Roma-Bangkok di Baby K e Giusy Ferreri. La base pop-reggae del duo Takagi/Mr. Ketra, il video del 35enne regista salentino Mauro Russo con la sua Calibro 9 Production. Gli autori cioè di un mostro da 110 milioni di visualizzazioni Vevo, record assoluto fin qui per il nostro Paese (tradotto in dischi, 300mila copie vendute).
Takagi, 42 anni, dj e produttore milanese, ha fatto parte dei Gemelli Diversi, il gruppo rap che a fine anni ’90 aprì la marcia verso la conquista del centro del pop italiano. Perciò fu dissato ai tempi da Fabri Fabra, sia pure con una certa sportività: “Mi sta sul cazzo Grido, i gemelli, il cugino / e duecento nomi a caso di gente che non sa neppure che io rimo”. Mr. Ketra è il beatmaker dei Boomdabash: lui è nato a Vasto, loro sono legittimi eredi del ragamuffin’ salentino anni ’90, tanto da esser stati adottati agli inizi da Treble dei Sud Sound System.
E sempre con i Sud Sound System ha iniziato a girare videoclip Mauro Russo, diplomato all’Accademia d’Arte di Bologna, fan del cinema di genere italiano (soprattutto Bava e Di Leo, da cui il nome della sua produzione Calibro 9), un lungo apprendistato nella scena rap prima di arrivare a girare clip per Mengoni e Ramazzotti. Col sogno nel cassetto di arrivare al cinema. Per adesso un po’ di cinema c’è quasi sempre nelle trame dei suoi clip: Roma-Bangkok era come Thelma e Louise. Con Vorrei ma non posto, girato tra i caravan del circo Togni, stiamo tra La strada di Fellini, Kusturica, e un vero campo Rom. Proprio quello del tweet di Salvini.
Roma – Bangkok. Andata e Ritorno
“Tutti vogliono fare Roma-Bangkok”, titolava il 9 giugno un post su Rapburger, il blog che fa da punto di riferimento per tutta la scena italiana. Vi si annunciava quel che sarebbe accaduto nell’estate in arrivo. Con un’efficienza degna di certi team produttivi anni ’60, Takagi e Ketra avrebbero fornito basi ad almeno altre tre canzoni caraibico-vacanziere: Sto bene così di Rocco Hunt, Me gusta di Jake La Furia, Baciami di Briga. Mauro Russo ci avrebbe messo sopra le sue immagini.
In Sto bene così, Rocco Hunt infila pride meridionalista a pacchi com’è nel suo stile (“Vita selvaggia come ad agosto in Sardegna / Ma ci divertiremmo pure a Varcaturo perché non importa il posto ma una comitiva degna”). Il videoclip è girato tra una coda di auto tipo Week End… di Godard e la solita festa sul tetto in mezzo ai palazzoni: 1 milione e rotti di visualizzazioni in un mese. In Me gusta, Jake La Furia, scuola milanese delle origini, chiama al featuring l’italodominicano Alessio La Profunda Melodia, e solletica un pubblico un poco più adulto con la location vanzinian-bobovieresca del video, Miami. “Tu non sei come ‘ste tipe, come le loro amiche / Tu sei un biglietto di prima per El Caribe”, rappa Jake. E intanto sorseggia una Peroni, per product placement carosellistico. “Chiamami Peroni, sarò la tua birra”, sussurrava mezzo secolo fa la modella svedese Solvi Stubing al comico ciccione Francesco Mulè perduto in una giungla di cartone. Ci siamo quasi. Il video di Me gusta è di Fred Cangianiello, 20enne videomaker e rapper col nome di Freeze Fred, inseritissimo nella scena. Jake La Furia è vestito di nero da capo a piedi, rosso come un gamberetto. Ma non basta. I commenti degli utenti su YouTube svelano un certo smarrimento: “Ritornelli in spagnolo, autotune e culi. Ha capito cosa vuole l’italiano medio”, “Il rap è morto”. Le bordate degli haters risultano appena temperate dalla tenuta del personaggio di Jake La Furia, entrato in classifica con le vendite del suo intero album Fuori da qui, e pure dall’esibizione di una certa comica inadeguatezza nella sua performance su un set estivo. “Dite quel che volete”, si legge a un certo punto, “ma Jake che balla non ha prezzo”.
Oltretutto, nella mappa storica dell’hip hop, Miami col suo immaginario di spiaggia – ragazze in tanga, stereo in macchina, doppi sensi pesanti – è un luogo importante e per nulla secondario rispetto allo scenario diametralmente opposto del “ghetto” grigio e metropolitano. Tradotto per noi: tra le torri di Torbellamonaca e Gratosoglio, e la dance-hall sulle spiagge del Salento, la distanza non è poi così lontana.
Ma nemmeno questo basta ad assolvere l’ultima delle produzioni estive salentino-caraibiche di Takagi e Ketra: Baciami di Briga, il diario di un effimero amore estivo (“e allora baciami / prima che parta il treno”), con spreco di modelle, panorami da cartolina girati tra Ibiza e Formentera, un’apparizione carosellistica del koala dello spot Vigorsol. Tre milioni e mezzo di visualizzazioni per il lavoro del 20enne regista Emanuele Pisano, di casa alla Honiro Label, il team produttivo romano che assiste Briga, i cui dischi sono distribuiti però da Sony Music. Nata dall’intraprendenza di un ex organizzatore di eventi della scena hip hop capitolina come James Honiro, la crew è una delle filiazioni di Honiro.it, il “portale della musica hip-hop italiana” online da quasi una decina d’anni.
Mattia Briga è uno dei “rapper di Amici”, e questo non è esattamente un complimento per nessuno. “Per le bimbe va bene”, leggiamo nei commenti al video. “Di rap ha solo il braccio tatuato”, “Mattia non è rap, si è sempre definito cantautore”, “tutta copiata da Coez”, “like solo per le fighe che ci sono nel video”. Interessante pure come nel corso del pezzo l’iniziale prospettiva di versi sbrigativi e molto macho tipo “mi son risparmiato l’approccio diretto/ io già me la immagino ad angolo retto” sfumi in un finale di sconfitta. Perfettamente simboleggiato, il finale, dallo scivolone della rima poliglotta: “hasta luego amor / sei stata come la disfatta a Waterloo”. E in questo modo la cosa dovrebbe risultare probabilmente meglio digeribile dalle “ragazzine” e dai “ragazzini” ai quali il pezzo è rivolto neppure tanto segretamente, contro i quali dunque si può scatenare l’odio virtuale dei “vecchi” della scena.
Sempre a metà giugno il rapper-webstar-comico Shade, torinese, vincitore della seconda edizione Mtv Spit e famoso in Rete per alcuni buffi freestyle fa uscire: Odio le hit estive. Il meta-rap dell’estate. “La gente balla e ride / io vorrei morire / in un secondo svuoto tutto il bar”. Mentre lui rappa in stile pop-punk tipo Blink 182, il video girato da Dipa mette in fila alcuni luoghi comuni sui video dell’estate, segnalati in sovraimpressione sulle immagini. È una specie di sceneggiatura universale, un prontuario per meglio comprendere i termini della sfida in corso tra haters e lovers della materia. Lo riporto qui di seguito: la location, l’artista, il close up, il placement, le ragazze, il lungomare, lo styling, la spiaggia, la finta storia d’amore, gli amici, il flirt, l’amico che partecipa al video per scroccare la vacanza, il pontile, lo skate, la scottatura, lo sponsor, l’appuntamento, la scena in bici ci piaceva troppo fa molto estate, l’errore, il sogno erotico, la censura, il mai una gioia, non avevamo soldi per il carrello, lo sponsor (di nuovo), il cameo. In fondo, l’effetto non è così lontano dal video-editoriale di Fabri Fibra sul fallimento delle buone intenzioni del rap, sei anni fa. «Anch’io ascoltavo le compilation estive», dice Shade ad Alessandra Castagneri de La Stampa, lei è la cronista semiufficiale della scena. «Alla fine dell’estate, però, smettevo di sentirle perché mi dava fastidio riascoltare quelle canzoni, le consideravo ormai roba vecchia. Mi piacerebbe invece che la musica fosse duratura».
Pischelli
Dieci anni sono abbastanza per considerare una musica “duratura”? Può darsi. Comunque quest’anno il disco per l’estate di Fabri Fibra esce nel segno della nostalgia. Non della spiaggia, argomento verso il quale, come abbiamo già visto, il rapper di Senigallia nutre un inguaribile e simbolico odio. Tradimento 10 anni rilegge a un decennio di distanza l’album che proiettò il rap italiano dentro la discografia ufficiale (o quel che già allora ne restava), con i buoni uffici di un’altra ex giornalista-fanzinara, Paola Zukar – che allora lavorava per la Universal (oggi con la sua Big Picture ha il management di Fabri Fibra, Marracash, Clementino). Il disco pose per primo un problema generazionale al rap italiano: non tanto per il “tradimento” in sé, alquanto blando. Invece: bisognava cominciare a preoccuparsi per i “ragazzini” e le “ragazzine” che ascoltavano Fabri spacciarsi per Pacciani, per Omar e anche per Erika, prendersela coi culattoni, con le troie e soprattutto con se stesso?
Ci fu chi si preoccupò. Fecero rumore allora le dichiarazioni della Presidente del Tribunale dei minori Livia Pomodoro sulla presunta dannosità di Cuore di latta, dedicata appunto a Erika e Omar (“io sono un fenomeno da baraccone/ mi sveglio con in mano una consumazione”). Era roba da appuntarsi sul petto come una medaglia, perché nell’hip hop la fantasia non è la realtà (così argomentò Fabri Fibra, come un qualsiasi gangsta d’Oltreoceano), ma decisamente il gioco riesce meglio se sei capace di lasciare almeno un dubbio in chi ti ascolta. Per un pezzo come Su le mani, giudicato omofobo e misogino, Fibra non salì sul palco del Primo Maggio a San Giovanni, nel 2013. Poco male. Quest’estate Su le mani è tornata dopo 10 anni con il featuring di Mista Tolu Kuti, rapper nigeriano-mantovano, uno degli emergenti tra le seconde generazioni dell’hip hop italiano (che della scena è uno dei fenomeni ancora nascosti, ma più interessanti).
Nella nuova versione del pezzo c’è anche una telefonata finale a Noyz Narcos. Romano, “gangsta” della prima ora col Truceklan, 36 anni. Pochi meno di Fibra – che di anni ne ha 40. Abbastanza per ricordare assieme i bei tempi andati, e l’effetto che ebbe l’uscita di Tradimento: Noyz: «È stata na botta fratè. La prima cosa che è ‘scita su major… comunque con un tajo hardcore bello… bello violento… Era ‘na sorta de Eminem con un taglio italiano cioè io ce stavo in fissa… Applausi per Fibra me ricordava molto quella robba là… My name is… comunque… non a dì che era una cosa scopiazzata… era un taglio comunque dissacrante… sai a noi ce pijava bene quella robba… comunque Truceklan semo sempre pro la robba tua, dai… ha spaccato insomma, è stato da paura…».
Con l’arrivo di giugno, anche Noyz Narcos ha fuori il suo “disco per l’estate”. Soltanto per via della data d’uscita. Si chiama Training Day come il film del 2001 di Antoine Fuqua girato tra le gang di spacciatori di Los Angeles, che è un cult vero per la generazione dei 30enni dell’hip hop. Per forza di cose, anche qui fa capolino una vaga nostalgia. Annuncia una voce all’inizio: “Fucile a pompa nella jeep… Drive by a viale Trastevere così… cominci a sparà così all’impazzata”. Accento romano, sindrome da odio per il mondo, invidia perché l’Isis ti ha rubato la scena e per chissà quanto tempo ancora. Il video girato da Giorgio Di Salvo (850mila visualizzazioni in due settimane) inizia nella cucina di un ristorante cinese prima di uscire in strada, di notte. Noyz attacca: “Sti ragazzi escono alle 19 con le tasche piene d’euro e le capocce vuote / Poi si ubriacano già alle 20 e vanno a cena senza i denti”. Eccetera.
Chi sono “’sti ragazzi”? ‘Sti ragazzi sono i “pischelli”. Sono gli ultimi arrivati. Confrontandosi col loro tentativo di vivere pericolosamente, come già hanno fatto i grandi (cioè lui), Noyz arriva a usare una parola pesante: “Doppia N è il padre”. Padre. E per contendersi l’attenzione dei pischelli sfida tutti i rapper più giovani di lui, forse più alla moda, usando l’invettiva secondo copione: “Voi co’ ste minchiate che scrivete / Fuori per la cortesia de sto gran cazzo / Suono, scende tutto il palazzo”. Di seguito: “La mia nuova merda esplode tutta di botto / Pischelletti in fissa pe’ tutto il blocco”. Affonda il colpo, infine, quando sembra alludere alla vicenda che ha portato il rapper romano Gemitaiz, 27 anni, a essere condannato a quasi due anni di prigione (con la condizionale) per detenzione e spaccio: “Gli agenti perquisiscono la tua magione / A volte le migliori menti vivono in prigione / Chiudi il cerchio con due anni di provvigione / La tua merda n’dura manco mezza stagione”. In quell’occasione, sotterranee, girarono diverse perfide considerazioni sulla “figuraccia” rimediata dal ragazzino.
Tra parentesi: un video di Nonostante tutto, titolo dell’ultimo album album di Gemitaiz, discreto successo di vendite, è uscito 10 giorni prima di Training Day. Girato in bianco e nero dal regista Fabrizio Conte per le strade del quartiere romano Montesacro, periferia storica nord-est, ha avuto 1 milione di visualizzazione in un mese. Base in levare di Don Joe, produzione della crew milanese Tanta Roba. Gemitaiz festeggia il ritorno tra gli amici del quartiere, e racconta così la sua disavventura: “A 16 anni mollavo la scuola (vaffanculo!) / In bocca una canna che poi sarebbe stata la mia condanna / Sveglia alle sei in tribunale con mamma / Rischio di prendere più del dovuto / Perché al giudice non sono piaciuto”. Una parola chiave, qui, è “mamma”. Ci sono sempre più mamme che padri nelle rime dell’hip hop, e questo è un dato di fatto che da solo meriterebbe un saggio intero. L’altro pensiero perfido è che, con una buona legge antiproibizionista, il rap italiano perderebbe circa tre quarti del suo lato gangsta e del suo stile di vita così pericoloso. Ma questo è, appunto, soltanto un pensiero appena meno perfido delle prese in giro che si è dovuto sopportare Gemitaiz.
Tornando a Training Day di Noyz Narcos, le orecchie appena più esperte si accorgono presto che il cuore del pezzo non sta nelle rime, affilate ma da repertorio, quanto piuttosto nel tappeto trap/grime che ci gira sotto. Elaborata da The Night Skinny, raffinatissimo produttore che vive a Milano e ha già collaborato con una dozzina di rapper italiani (compreso Gemitaiz), la nuova base di Narcos accende immediatamente un dibattito nello spazio dei commenti, sotto il video. Haters: “Ti sei venduto”, “un po’ una merda”, “sta diventando commerciale”, “RIP”, “torno ad ascoltare Verano Zombie”. Strada facendo, però, il rapper romano si guadagna un bel po’ di difensori: “Anche se non vi aspettavate un Noyz sulla trap non potete dire che sto pezzo faccia schifo”; “Il problema del rap italiano è ‘sto pubblico di merda che siete voi”. “Altro che la Dark Polo Gang”.
Oggi nell’hip hop italiano, parole come “trap” e nomi come Dark Polo Gang (gli ultimissimi arrivati, quindi i più esplosivi di tutti, vedi box a pag. 16 e in tutte le foto) fanno più o meno l’effetto che 10-20 anni fa potevano fare parole come “rap” e come Truceklan – la crew originale gangsta di Noyz Narcos. O come i Flaminio Maphia, che in un passato quasi preistorico a Roma furono i primi frequentatori di un certo immaginario coatto e spaccafeste. Poco adatto comunque al risentimento – o astio, per dirla col vecchio Theodor Adorno (e non esisteva nemmeno Internet) – quasi naturale nell’ascoltatore che si affaccia all’età adulta. Sulla pagina Facebook di Night Skinny, scottato evidentemente dalla cosa, compare a un certo punto una domanda: “Prima di andare a dormire mi spiegate quando un pezzo è trap e quando rap?”. Pescando a caso tra le risposte (70 commenti): “Se fa cacare è trap se è figo è rap… però se è un pezzo rap che fa cacare lo si può considerare rap a prescindere”; “È trap quando senti versi come skr! Skr! Skr! È rap quando senti versi come yaoh! Yo yo!”; “Trap: arroganza. Rap: coerenza”; “Madonna quanti babbi che rispondono seriamente”.
In fondo ai commenti, un certo Simone ha postato il video di Lucci&Ford Boombap. Nel primo piano sequenza Lucci, vecchio compare di Noyz Narcoz e campione della scena romana degli oggi 30enni, cammina sotto il gasometro del quartiere Ostiense, che è stato il set di mille banalità consumate in nome dell’hip hop. Di fronte al muro graffitato ci sono due ragazzini: uno finge di rappare, l’altro lo riprende con la telecamera. Dice: “Scusi! Scusi, signore! Si può spostare gentilmente, stiamo facendo un video rap…”. P/p sulla faccia di Lucci. Le rime scoprono una base d’altri tempi, con lo scratch di Dj Ceffo: “Giù per strada e anche a casa mia / negli anni in cui dicevi ascolto rap sembra avessi qualche strana malattia / sembrava quasi un’utopia / ma adesso che sta mmerda è sui diari dei bambini penso mamma mia…”. Più avanti: “Bella ‘sta robba che fai. Come se chiama? È n’altra delle mode che te scordi tra ‘na settimana (…)”. Vai col ritornello: “Daje forte / manname er bomba / è l’unica certezza in questa cazzo di giungla”.
It’s only rock’n’roll. But I like it.
L’Industria degli Haters
Quarantenni contro trentenni contro ventenni; Gratosoglio contro Ibiza/Salento; grigia periferia contro vacanza in spiaggia, beat old school contro trap elettronica, Noyz Narcos contro Dark Polo Gang; fanbase contro bimbiminkia. È in corso davvero uno scontro generazionale nell’hip hop italiano?
Sì e no.
Sì perché lo scontro tra fratelli maggiori e fratelli minori, figli della strada e bimbiminkia viziati, tra chi è sempre stato e chi vorrebbe essere, ma non sarà mai, fa parte della retorica familiare e maschile del genere. La paternità è da sempre il grande buco nero dell’hip hop. I padri nell’hip hop sono assenti, inutili, dannosi, spesso sono morti. Più spesso sono degli stronzi e basta. I padri sono la Legge. I padri sono vittime della Legge. Sono le guardie, sono i ladri catturati dalle guardie. Esempi da non seguire in ogni caso.
Ma questa roba è soltanto la retorica del genere. In larga parte sopravvalutata, nella realtà. A uno sguardo dall’esterno, il tessuto produttivo dell’hip hop italiano – crew, beatmaker, videomaker, merchandising, booking di concerti – appare invece come un mondo omogeneo, intergenerazionale e talvolta piuttosto smart. Dietro le personalità e i personaggi dei rapper larger than life si muove un Autore Collettivo capace di allargare il suo pubblico usando la Rete, ma anche di frequentare la tv dei talent-show fino a creare nuovi spazi di mercato che si nutrono di uno scontro generazionale ed estetico (pop/rock, rock/punk, hardcore/trap…) del tutto comune nella storia della musica popolare. Questo Autore Collettivo è sufficientemente scaltro per appoggiarsi alle etichette discografiche tradizionali, e allo stesso tempo tirar fuori dalle camerette dei “ragazzini” musicisti indipendenti la loro naturale inclinazione verso i suoni che si sentono in giro, e caricarli a bordo, per poi nel caso dissarli senza pietà.
«Ormai siamo alla “terza generazione”», riassume con intelligenza il produttore Don Joe in un’intervista a Rapburger, «…non ho occhio per nessuno in particolare, però il fatto che siano più vicini ai fan più piccoli crea un hype immenso sui social e ciò fa girare il prodotto». Con il 20enne napoletano Yung Snapp, membro della sua crew Dogozilla Production che raccoglie alcuni giovani beatmaker italiani, Joe – 41 anni – ha messo in piedi un altro dei dischi di quest’estate: Cult di Emis Killa. Dove, col ritornello cantato, l’autotune e il ritmo in levare, si stabilisce che: “Lupin, MacGyver, Batman / Street Fighter, Tekken, Packman / Mi guardo adesso, rimpiango e penso che tutto questo era un cult”. Oppure: “Il rap di Biggie e Tupac / Space Jam e Michael Jordan / Mi guardo adesso, rimpiango e penso che tutto questo era un cult”.
Il video girato tra i palazzoni di periferia e un acquapark (no Miami, niente Ibiza), mette in scena sosia, pupazzi e maschere di questa curiosa nostalgia. Curiosa perché Emis Killa di anni ne ha 26, e nei Nineties quasi non era nato. Però ha duettato col proto rapper very old school Max Pezzali, in Te la tiri (nell’omaggio a Hanno ucciso l’Uomo Ragno, prodotto nel 2012 ancora da Don Joe). Il regista Francesco Lettieri, napoletano, ma residente a Roma Pigneto, di anni ne ha qualcuno in più. Ma non ancora abbastanza. Più interessante notare che Lettieri ha diretto un’altra superhit dell’estate: Oroscopo del cantautore Calcutta. Featuring Takagi e Ketra, di nuovo. Caraibico-salentino-americanapparel, qualcosa del genere. E con questo, il complotto dell’estate risulta finalemente svelato. “Credo che ogni persona possa dire che in questo pezzo ci si rivede”, ha spiegato Emis Killa in un’intervista. “Anche io ogni tanto guardo indietro ai miei 17 anni, sono fatto così”.
L’estate che ha creato il nostro amore
Per farmi poi morire di dolor
Odio l’estate
(Estate, Bruno Martino, 1960)