“Benvenuti al secondo lato della cassetta di ‘The Joshua Tree’”, dice a un certo punto Bono, prima di attaccare Red Hill Mining Town, sesta canzone del disco e decima del concerto, dopo poco più di un’ora di musica e con lo spettacolo entrato nel vivo da un bel pezzo. La rilassatezza con cui scherza e parla col pubblico la dice lunga sullo spirito con cui gli U2 stanno affrontando questo tour celebrativo.
Il primo tour celebrativo della storia di una band che in qualche modo ha sempre lottato col proprio – ingombrante – passato, cercando di restare proiettata verso il futuro. La scelta di tornare a eseguire su un palco un disco di trent’anni fa – rimandando ancora una volta l’uscita del nuovo “Songs of Experience”, atteso ormai per la fine dell’anno – aveva spiazzato tutti, non solo i fan storici del gruppo.
Eppure, e ora lo possiamo dire con cognizione di causa, era la cosa giusta da fare, nel momento giusto. Primo perché The Joshua Tree è importante per tutta una serie di ragioni che vanno anche oltre l’aspetto musicale. Quel disco cercava di fotografare il declino della società americana nell’era di Reagan, ed è incredibile notare come trent’anni dopo un certo tipo di racconto sia tornato di strettissima attualità. L’altro punto riguarda proprio le canzoni che lo compongono: perché se più o meno metà scaletta è formata da quelli che sono a tutti gli effetti alcuni dei classici più noti della band di Dublino, per il resto si tratta di brani suonati pochissimo dal vivo e, soprattutto, poco rivisitati in versione stadio.
Fu proprio The Joshua Tree a permettere agli U2 di fare il salto e diventare la più grande rock band del mondo. Con il tour che nel 1987 li portò proprio a Roma – allo Stadio Flaminio – arrivarono per la prima volta i megaschermi e cominciò per loro l’epoca dei concertoni. Con lo “Zoo TV Tour” (l’equivalente di “The Wall” per la generazione di nati negli anni ’70) si spinsero molto più in là dal punto di vista dello spettacolo e della tecnologia, fino a non tornare mai più indietro; l’astronave del “Pop Mart Tour”, il concerto dell’artiglio (quello col palco a 360 gradi), l’allestimento faraonico del 2015. Man mano che i dischi diventavano meno interessanti, i concerti diventavano sempre più giganti, unici, pazzeschi, forse pure troppo.
È interessante quindi notare come per questo ritorno al passato la scelta della band sia stata di fare le cose in maniera molto più semplice.
Gli U2 nel 2017 sembrano voler tornare a essere una band di quattro persone che suonano, e il resto è solo contorno.
L’inizio del concerto è in questo senso perfetto: con Larry Mullen che si accomoda dietro la batteria appena calato il sole, senza che nessuna luce sia stata accesa, e mentre ancora va la musica di sottofondo (The Whole of the Moon degli amici Waterboys) comincia a suonare il riconoscibilissimo pattern ritmico di Sunday Bloody Sunday con gli altri membri del gruppo che entrano uno alla volta a tempo con il pezzo. Prima il riff di Edge, poi Bono con i suoi vocalizzi e alla fine il basso di Adam Clayton. Gli schermi sono tutti spenti, gli U2 occupano un palchetto piccolo, collegato a quello gigante da una passerella, e suonano. Nient’altro. Suonano e basta.
Prima di abbandonarsi all’esecuzione integrale di The Joshua Tree si scaldano con quattro pezzi dai due immediati predecessori (War e The Unforgettable Fire), un po’ per rompere il ghiaccio, far salire ancora la temperatura del pubblico e soprattutto creare una sorta di filo logico ideale per comprendere come, e da dove, sono arrivati a partorire quel disco. È quindi il turno di New Years Day e Bad, che è forse una delle loro canzoni più belle di sempre.
Sull’attacco Bono racconta di avere passato la notte precedente a Roma e di essere andato a visitare la tomba di Keats al Cimitero Acattolico di Porta San Paolo. “Keats è il mio eroe”, dice, e a metà del brano comincia a cantare Heroes. Già, quella Heroes lì. In quel momento lo stadio è tutto buio, c’è solo una luce rossa puntata sul palco e gli spalti pieni di cellulari accesi che sembrano tante piccole lucciole. Basta.
Dopo Pride, forse il brano che ha segnato l’inizio della loro popolarità nel nostro paese (stiamo parlando degli anni d’oro di Deejay Television), lo schermo gigante (8k!) illumina tutto lo stadio di rosso e delinea la figura imperiosa dell’albero cresciuto nel deserto, il synth di Where the Streets Have No Name annuncia che sta per cominciare l’esecuzione integrale di The Joshua Tree, con gli U2 che fanno ritorno verso il palco principale, si dispongono in linea e le immagini girate appositamente da Anton Corbjin ci trasportano idealmente proprio nell’America cantata da quelle canzoni.
Chi scrive ha dei problemi con il concetto di performance di un album: raramente mi sono stato lasciato trasportare da uno show del genere. Sapere perfettamente cosa accadrà e in quale minuto accadrà finisce per uccidere la tensione, e anche noi che viviamo attaccati a setlist.fm sappiamo che le scalette che sembrano perfette su disco raramente funzionano bene in concerto.
E il rischio che qualcosa andasse storto in questo caso era elevatissimo: i brani più noti, quelli più amati dal pubblico sono tutti all’inizio. La seconda metà è molto più oscura e, come dicevamo qualche riga più su, è stata praticamente abbandonata dagli U2 nel corso dei decenni successivi. E invece quello di The Joshua Tree è stato davvero un momento magico nella sua interezza. Il pubblico era lì per quello, era pronto e proprio le canzoni dimenticate sono state le più emozionanti.
Dopo I Still Haven’t Found What I’m Looking For e With or Without You (durante la quale il pubblico degli spalti ha realizzato una coreografia mostrando al cielo i fogli A4 gialli che aveva trovato sui sedili e che tutti insieme formavano la scritta “30” e il solito albero), è arrivata Bullet the Blue Sky, nervosissima e perfetta nel raffigurare la continuità culturale tra gli Stati Uniti degli anni’80 e quelli del 2017. Fino a quel momento gli U2 non sono mai apparsi sul grande schermo, decidendo di restare un puntino nell’immenso delle loro canzoni, ma a metà brano Bono “ruba” una telecamera, con faro giallo sparato in faccia, e comincia a riprendere se stesso e i suoi compari.
Da qui in poi lo show cambia ancora una volta: Running to Stand Still, Red Hill Mining Town, e In God’s Country scorrono perfette senza che l’attenzione cali mai una volta. Prima di Trip Through Your Wires, Bono si lancia in un discorso sulle similitudini tra irlandesi e italiani (“Ma cosa cazzo sto dicendo”, ride, guardando gli altri) che poi riprende spiegando come sia il concetto di famiglia a legarci e come loro, gli U2, compresi quelli che non salgono sul palco, siano proprio come una grande famiglia che ha superato i decenni, i momenti belli e pure quelli orribili. One Tree Hill viene infatti dedicata alla memoria di Greg Carrol, uno dei roadie storici della band, morto purtroppo vittima di un incidente sul lavoro.
L’atmosfera cambia di nuovo in maniera netta con l’arrivo di Exit, che merita tutto un discorso a parte. Exit è una delle canzoni più oscure e marce che gli U2 abbiano mai scritto, un viaggio nella mente di un assassino seriale, scritto grazie all’ispirazione data dalla lettura di “The Executioner’s Song” di Norman Mailer e “A sangue freddo” di Truman Capote. Nata come una jam session realizzata durante l’ultimo giorno delle session di registrazione, rappresenta per i fan hardcore del gruppo una specie di Sacro Graal.
L’hanno suonata dal vivo pochissime volte. Bono ha poi ripetutamente detto di trovarsi a disagio nell’eseguirla e di non saper gestire bene la botta emotiva causata da questa canzone. Non è un caso che durante l’esecuzione indossi un cappello da cowboy, come a voler rimarcare di essere altro da sé in quel momento specifico. Un personaggio. Una maschera. Un mostro post-punk atterrato per caso in uno stadio pieno di gente con le fascette intorno alla fronte. Exit è delle poche canzoni della storia degli U2 a non contenere un briciolo di entusiasmo. Zero redenzione. Solo buio. A chiudere il tutto arriva Mothers of the Disappeared che ci accompagna alla fine del lato b della cassetta, per dirla come Bono, e che ci porta dritti dritti verso la parte più discutibile del concerto. Quella dei bis.
Gli U2 hanno dichiarato più volte di avere scelto di chiudere in questo modo il loro show proprio per non volere cedere all’idea della pura e semplice operazione nostalgica, ma è davvero difficile non considerare la conclusione un po’ anticlimatica. Attaccano Miss Sarajevo, ribattezzata per l’occasione Miss Syria, con tanto di bellissimo e commovente filmato sulla situazione dei rifugiati e proclama di Bono in favore delle politiche italiane sull’immigrazione. “Siete i migliori d’Europa”, urla, e tutti applaudono convinti, salvo poi andare a riversare la loro frustrazione sui social, che oggi pullulano di “Se ci tiene tanto dia i soldi del cachet ai migranti” e altre perle di sopraffina intelligenza. Perché se il buonismo di Bono è da sempre insopportabile, il cinismo da social è anche peggio (e almeno Bono alle cose che dice sembra crederci davvero, spesso anche in modo ingenuo e infantile).
Con Beautiful Day, dove Bono canta in italiano anche un pezzetto di Miserere, il brano di Zucchero di cui è coautore, arrivano gli effetti speciali e inizia la parte rock-truzza dello show a cui forse avremmo rinunciato volentieri. Elevation e Vertigo (con dentro Rebel Rebel, sempre di Bowie) fanno saltare tutto lo stadio, ma se volevano essere una porta aperta sul presente della band, be’, si tratta sempre e comunque di pezzi usciti tredici anni fa e quindi non proprio di primo pelo. Ma gli U2 sono anche questa cosa qua, anche se abbiamo fatto finta di dimenticarcene.
Per fortuna arriva il turno di Ultraviolet, splendido recupero da “Achtung Baby!”, dedicata alle donne che hanno cambiato la storia e a quelle che “faranno la rivoluzione”. Sul maxi-schermo tra le varie Anne Frank. Jo Cox e Poly Styrene compaiono anche le italiane Rita Levi Montalcini, Emma Bonino e Giusy Nicolini, ex sindaco di Lampedusa. I sermoni che sono stati contenuti per tutta la prima parte del concerto qui si prendono il centro della scena. One è inevitabile, arrivati a questo punto, ed è giusto così. Tutti cantano in coro, come è sempre stato e come sempre sarà.
Il finale è tutto dedicato a una canzone nuova: The Little Things that You Give Away. Un pezzo in punta di piedi, soul, dal bel crescendo. Non proprio una chiusura in pompa magna, ma necessaria proprio dal punto di vista concettuale. Gli U2 vogliono ripartire da qui. Non hanno intenzione di fermarsi. Non vogliono puntare tutto su quello che erano ma guardano già a cosa diventeranno. Non si arrendono e in questo sembrano onestissimi. Puri, a loro modo.
Ad aprire lo show c’era stato, addirittura in anticipo su quanto comunicato nei giorni precedenti, Noel Gallagher con i suoi High Flying Birds e il pubblico ha risposto alla grande anche per lui. Cori a non finire, ovviamente, sui brani del catalogo Oasis: Champagne Supernova, Half the World Away, Little By Little, Wonderwall e l’ovvia Don’t Look Back in Anger.
Una canzone che era già un classico ma che suo malgrado è diventata un simbolo.
Il verso più celebre, lo sapete tutti, dice: “But please don’t put your life in the hands of a rock ‘n’ roll band who’ll throw it all away”. Fine.