I Foals hanno una doppia identità. Il caos e l’ordine, la struttura matematica delle canzoni e il modo selvaggio in cui le suonano attirando e scuotendo il pubblico dal vivo. È un dualismo continuo: c’è la scontrosità tormentata del cantante Yannis Philippakis che si presenta alle interviste ma sta seduto in poltrona da solo in disparte, sorride ma non vuole parlare, e durante il concerto al Fabrique di Milano cerca il contatto fisico con il suo pubblico per provare la sensazione di fondersi con la gente («Voglio l’oblio, voglio perdermi, voglio distruggere il palco» ha detto presentando il tour del nuovo album What Went Down) e c’è la gentilezza tranquilla del chitarrista Jimmy Smith che racconta la genesi dell’album, riflette sui tempi dilatati e senza limiti della vita in tour (i Foals sono entrati in studio per registrare What Went Down subito dopo aver finito il tour del terzo album Holy Fire) e sul palco costruisce i pattern scintillanti di chitarra su cui Yannis scatena il caos.
Due cose importanti uniscono le due anime: i Foals sono una band che adora vivere in tour, e sono alla ricerca della creatività attraverso la sfida, sempre un passo fuori dalla zona di sicurezza, perché credono che in una situazione scomoda vengano fuori le cose migliori. Anche perché non sono convinti che debba durare per forza per sempre: «Non c’è ragione perché sia così. Se la qualità della musica o il divertimento dovesse diminuire smetteremmo» dice Jimmy.
Ecco perché cambiano studio di registrazione continuamente (What Went Down è stato registrato in Francia in una paese della Provenza spazzato dal vento, il secondo album Total Life Forever in uno studio nella periferia industriale di Goteborg, in Svezia), ma poi tornano sempre a scrivere nella loro sala prove di Oxford: «Che è piccola, rumorosa e scomoda, il posto più brutto dove si può fare musica. Ma lo amiamo e ne abbiamo bisogno» dice Jimmy.
Stare in tour è una parte essenziale della nostra vita
Il tour di What Went Down è appena iniziato: le prossime date sono a Madrid, Barcellona, Parigi ed Amsterdam, poi c’è un tour in Inghilterra e Irlanda e molte date in giro per gli Stati Uniti fino alla prima serata del Coachella. Senza fermarsi, come sono abituati a fare. «Stare in tour è una parte essenziale della nostra vita» dice Jimmy, «Lo facciamo da dieci anni. Mi piace la sensazione di vivere al di fuori della normalità. Sei tu che scegli i ritmi e le regole, è come essere fuori dal mondo. Il rischio è la solitudine, ma è una bella sensazione. L’importante è imparare molto in fretta quali sono i limiti».
E tu cosa fai per tenere i piedi per terra? «Leggo le notizie. Aiuta parecchio». Anche a sentirsi scomodi e quindi più creativi: «Nessuno vuole essere tranquillo in quello che fa. L’emozione iniziale di scrivere una canzone è una scintilla: da quel momento in poi lavori con l’anima e non più con il cervello. Nell’ultimo disco abbiamo distillato in modo efficace tutto quello che avevamo da dire, ora siamo nella quiete prima della tempesta». «Prendiamo la musica seriamente» ha detto una volta Philippakis, «Il conflitto interiore è una forza creativa. Noi vogliamo essere una macchina elegante ed instancabile».
I Foals sono autentici, a prescindere da quello che riescono ad esprimere sul palco. «La magia fragile» come l’ha definita Jimmy Smith; può essere che in una delle tante tappe della loro interminabile vita in tour siano meno precisi, o troppo incasinati, o meno coinvolgenti, ma l’impressione è che tutta la loro energia sia sempre canalizzata verso quell’ora e mezza di concerto. E che l’ultima cosa che hanno fatto sia quella più urgente ed immediata, pronta per essere scaricata addosso al pubblico e poi sostituita rapidamente: «Stiamo iniziando a pensare al prossimo disco» dice Jimmy, «Vogliamo molto più caos».
I pezzi con cui i Foals aprono il loro concerto al Fabrique, Snake Oil e Mountain at My Gates sono molto più potenti della versione registrata su What Went Down e mettono in chiaro quello che succede dopo. La tensione continua tra le strutture ritmiche impeccabili della band e le note alte fuori controllo del suo cantante. L‘ordine e il caos. Yannis Philippakis che sembra impenetrabile mentre fa crowdsurfing (facendosi pure un giro al bar durante l’ultimo bis Two Steps, Twice) cercando, forse, una sua catarsi, e la semplicità di Jimmy, che prima di salire sul palco mi aveva detto: «Com’è per me un buon concerto? Quando non pensi a quello che stai facendo, e all’improvviso è finito e no ricordi niente. E poi se non mi fa male il braccio mentre suono, perché vuol dire che sono tranquillo».