«Quando sei agli inizi tutti ti dicono di non fare questo e quell’altro, il che è piuttosto strano», dice Eric Moore, manager-batterista dei King Gizzard & the Lizard Wizard, mentre si lancia su uno dei divani del loro studio di Melbourne. «È tutto un “non si può fare” e “nessuno si comporta così”. Beh, noi abbiamo sempre seguito il nostro istinto». Quest’attitudine libertina può aiutare a capire come ha fatto quest’esercito di sette esploratori psichedelici a pubblicare 13 album in sei anni – di cui cinque nel 2017. Moore spiega che lo spazio che hanno affittato e arredato con moquette a scacchi e muri mobili è il segreto della loro indipendenza.
La veranda dell’edificio arancione è decorata con un poster di arti marziali, su cui campeggia l’illustrazione di due pugni che afferrano un bilanciere. Sulla sinistra c’è una fabbrica in mattoni, sembra che dorma sommersa da vecchi graffiti. E mentre i tram fanno tremare l’arteria che taglia in due il centro di Melbourne, una gang di tipi magrolini emerge dal 7-Eleven armata di bibitoni e gelato. Scappano dal caldo australiano attraverso una porta di ferro.
La stanza «è tutto meno che una figata, ma fa il suo dovere», dice Stu Mackenzie, voce, chitarra, tastiere e flauto. Un enorme fulmine di colori floreali svetta sul muro. Una grossa tenda nera divide il lato sud della sala, ed è possibile intravedere un muro bianco scarabocchiato: un cazzo stilizzato da una parte; appunti di accordi dall’altra; poi la lista della spesa, che comprende un bollitore e un lettore DVD.
Un’altra parete bianca è ricoperta di immagini di Wonderful Crazy Night, l’album di Elton John del 2016. «Siamo stati amorevolmente ossessionati da quella copertina», ridacchia Mackenzie. «Orribile, ma meravigliosa. La guardi e sei felice. Come fai a sentirti triste di fronte a una roba del genere?». Oggi i sette amici provenienti da tutti gli angoli dello stato – e anche oltre – stanno suonando parte del set che porteranno sui palchi di tutta Europa. Poi, mentre il caldo lascia spazio al tramonto, Moore, Mackenzie, Joey Walker e Michael Cavanagh suonano vecchi strumenti acustici guardando il rinfresco.
«Amo fare i dischi; è la cosa più divertente del mondo», dice Mackenzie, alla guida del gruppo grazie al suo carisma innato e a qualcos’altro di indefinibile. «Ho fatto questa stupida intervista in cui ho detto: “L’anno prossimo ne registreremo cinque”, all’epoca eravamo pieni di brani che non riuscivamo a mettere insieme».
Liberi da ogni logica di marketing e ignorati nella lista di priorità della loro etichetta, la band si è ritrovata costretta a compartimentare tutto quel materiale. Flying Microtonal Banana è stato scritto sfruttando strumenti nati per incasinare la classica scala tonale a 12 note; Murder of the Universe è una storia fantasy raccontata da Leah Senior; Sketches of Brunswick East, la collaborazione con i Mild High Club, il progetto jazz psichedelico di Alex Brettin, si è lasciato dietro una lunga lista di strani accordi, tutti scritti su una delle pareti dello studio.
A novembre, Polygondwanaland viene annunciato su Facebook con il messaggio: «Quest’album è gratuito. Gratuito». La band ha diffuso in rete il master, lasciando spazio a una serie infinita di realease surreali. «Era un esperimento totale», spiega Moore. «E sì, eravamo pronti all’esercito di etichette e personaggi pronti a sfruttare il nostro lavoro: “Fico, posso farci su un po’ di soldi”. È successo, non ci sono dubbi. Ma per la maggior parte dei casi abbiamo avuto a che fare con creativi, gente che voleva esprimersi o fondare etichette discografiche dal nulla. È stato molto fico».
Mentre Moore ammette di essersi ispirato ai Grateful Dead, il loro business model sembra anch’esso frutto di una spinta creativa, e non di un calcolo ben preciso. «Credo sia un privilegio poter fare musica così liberamente, tutti si sentono in dovere di dare il massimo. Se non lo fanno, poi si sentono in colpa», aggiunge Mackenzie. «Tutto quello che ci è successo è figlio della musica che abbiamo pubblicato», dice Moore. «La nostra fanbase nasce da lì. C’è talmente tanta roba da ascoltare… è un po’ come se gli ascoltatori avessero messo piede in un mondo folle. La gente lo vede quasi come un universo, una roba del genere», spiega ridendo.
Universo o meno, le “pulizie di primavera” del 2017 hanno lasciato un vuoto piuttosto soddisfacente nell’archivio dei King Gizzard. Moore spera di poter pubblicare qualche vecchio EP, e il prossimo tour americano sarà occasione per suonare quel materiale. Mackenzie ne parla con una certa noncuranza.
«La scorsa settimana abbiamo svuotato tutto», mi dice indicando l’ammasso di tastiere, chitarre e tutto il resto dell’armamentario da sala prove. «C’era almeno il triplo della roba che vedi adesso, e ce ne siamo liberati. Abbiamo passato l’aspirapolvere per la prima volta in due anni, e poi abbiamo rimesso dentro solo l’essenziale. Il resto? Venduto. Ci ha fatto sentire bene».
E adesso? Alza le spalle e sorride.
«Metteremo un piede davanti all’altro», dice. «Non so cosa faremo in futuro, non so niente. Neanche cosa sto facendo adesso».