Lo sapete tutti. Giovedì scorso l’Accademia di Svezia ha deciso di assegnare il Premio Nobel per la Letteratura a Bob Dylan per – si legge nella motivazione ufficiale – “avere creato nuove espressioni poetiche nella grande tradizione della canzone americana”. Da quel giorno, Dylan non ha mai risposto al telefono per accettare il premio (che verrà consegnato dalle mani del re di Svezia il 10 dicembre a Stoccolma) ed è notizia di oggi che l’Accademia ha semplicemente smesso di cercarlo. “Ora come ora, non stiamo facendo niente. Ho chiamato e mandato email ai suoi collaboratori più stretti, e ho ricevuto risposte molto cordiali. Per ora è sicuramente abbastanza” ha dichiarato Sara Danius, la segretaria permanente dell’Accademia “se non vuole venire, non verrà. Sarà comunque una grande festa”.
Sui social network, dopo qualche giorno di discussione sull’opportunità o meno di consegnare un premio sulla letteratura a un cantautore, si è passati a discutere della sfacciata maleducazione di Dylan. Insomma, almeno rispondere al telefono, no?
Non sappiamo se Dylan accetterà o meno il premio (non sarebbe la prima volta: nel 1958 Boris Pasternak, autore de Il dottor Zivago, rifiutò su pressione dell’Unione Sovietica; nel 1964 a dire ‘no grazie’ fu il filosofo francese Jean-Paul Sartre), né ci interessa qui discutere la legittimità o meno sia del premio Nobel alla letteratura nell’anno domini 2016, sia di assegnarlo a Bob Dylan per aver rivoluzionato la poesia americana (nel 1965, ma va beh). Quello che possiamo notare, però, è come pure al giorno d’oggi nessuno abbia ancora capito praticamente nulla di chi o cosa sia (o rappresenti) Bob Dylan.
In un momento in cui il Premio Nobel alla letteratura assomiglia più che mai a un “premio alla carriera”, una sorta di processo di istituzionalizzazione e canonizzazione, una sorta di ‘concessione culturale borghese’ a cui molti aspirano senza problemi (non dimentichiamoci che oltre alla gloria c’è in ballo un consistente contributo in denaro), il fatto che Bob Dylan semplicemente se ne freghi rappresenta il momento più “Bob Dylan” da quando effettivamente ha rivoluzionato la poesia americana.
La figura di Dylan è legata all’immagine del cantautore impegnato, l’uomo che nel 1963 ha scritto Blowin’ in The Wind e che rappresenta per molti adolescenti la porta d’ingresso “monumentale” alla canzone impegnata. La stampa di casa nostra non si è fatta mancare l’ennesima opportunità di chiamarlo “il menestrello”. Peccato che quel Dylan sia morto nel 1965, quando si presenta sul palco del festival folk di Newport (organizzato dal primo grande vecchio trombone contro cui si è scagliato: Pete Seeger) con una band elettrica, la Paul Butterfield Band. Contestatissimo – si vocifera che lo stesso Seeger abbia staccato i fili elettrici brandendo un’ascia, ma la questione anche in questo caso è più complessa – suona una versione acustica di It’s all over now, baby Blue congedandosi per sempre dalla scena folk. Il 1965 è l’anno del dittico Bringing it all back home–Highway 61 Revisited. Dischi con alcune tra le sue canzoni più belle, famose e importanti (Subterrenan Homesick Blues, Like a Rolling Stone, Ballad of a Thin Man e Desolation Row). Nel 1966 non solo esce l’altro suo capolavoro, Blonde on Blonde, ma è anche l’anno della famosa esibizione di Manchester in cui, in un momento di silenzio, un fan gli urla “Judas”, da cui la sua più leggendaria risposta: “I don’t believe you. You’re a liar”.
La morte di Dylan come esponente dei diritti civili, tra l’altro, è raccontata sia in film leggendari come Don’t Look Back di D. A. Pennebaker, sia in libri come Positively 4th Street di David Hajdu (edito in Italia da Arcana nel 2004) dove si racconta di un dialogo con cui Joan Baez e Dylan sanciscono la fine del loro rapporto. Baez accusa Dylan di aver tradito la ‘causa’ cui si erano votati. Dylan, ormai trasfigurato nella figura iconica che tutti stanno mettendo sui loro profili Facebook (il Dylan del 1965, vestito di nero, Ray Ban anche di notte, due ore di sonno per notte e una dieta di anfetamine), gli risponde che la differenza tra di loro risiedeva nell’ostinazione di Baez a credere di poter cambiare il mondo e la rassegnazione di Dylan nel non poterlo fare. In un periodo di grandi manifestazioni per i diritti civili, quegli anni Sessanta su cui ancora oggi si fonda gran parte della mitologia e dell’immaginario collettivo del Secolo XX, Bob Dylan va contro le convenzioni sociali e le posizioni di comodo cominciando a giocare alle tre carte con il pubblico, i critici, i giornalisti, gli studiosi, i colleghi e la sua stessa immagine (per capire qualcosa dell’immagine di Dylan il punto di partenza perfetto è I’m not there, film del 2007 di Todd Haynes).
Da anni Bob Dylan è impegnato in un neverending tour che gli fa girare il mondo senza sosta. Salendo sul palco, una voce registrata recita questo testo:
“Signore e signori, vi prego di dare il benvenuto al poeta laureato del rock’n’roll. La voce della promessa della controcultura degli anni sessanta. Il ragazzo che costrinse il folk ad andare a letto con il rock. Che si è truccato negli anni settanta ed è sparito nella nebbia dell’abuso di sostanze. Che emerse per trovare Gesù. Che è stato cancellato come una vecchia gloria dimenticata alla fine degli anni ottanta, e che ha improvvisamente liberato dagli ingranaggi un po’ della musica più forte della sua carriera all’inizio degli anni novanta. Signore e signori, un artista che registra alla Columbia: Bob Dylan!”
Conversioni religiose. Cambi di genere. Distorsione della sua stessa immagine. Una carriera da attore portata avanti con quel ghigno malefico da jokerman. Cover su cover. Provocazioni. Le canzoni suonate per non farle cantare al pubblico, trasfigurandole e rendendole qualcos’altro, qualcosa di nuovo. La voglia di non essere un idolo per nessuno e di non essere portatore di nessuna causa. Insomma, se vi aspettate qualcosa da Dylan, probabilmente verrete delusi.
Per questo chi si sta lamentando della maleducazione, del cattivo carattere, dell’indolenza, della provocazione di Bob Dylan semplicemente non ha capito niente di Bob Dylan. Quasi sicuramente, inoltre, nemmeno la Reale Accademia di Svezia ha capito chi sia Bob Dylan.
Insomma, questo premio è stato letto da molti critici e addetti ai lavori come una provocazione verso la letteratura americana, che non viene premiata dal 1993 (Toni Morrison) e che ogni anno spera di essere rappresentata da uno tra Philip Roth – principalmente – Don DeLillo o Thomas Pynchon. Darlo a Dylan cinquant’anni dopo aver effettivamente cambiato la storia della poesia americana sembra essere una pura e semplice trollata da parte di chi ritiene quel tipo di letteratura non meritevole di entrare nell’Olimpo istituzionale che segna “il progresso della società”. Peccato che il premiato sia uno capace di trollare più forte. Non scopriamo certo oggi che Dylan sia uno stronzo. Questa è la mossa più Dylan da anni a questa parte ed è forse la più bella notizia che potessimo aspettarci da uno che nel 1965 scrisse Ballad of a thin man proprio per andare contro ai ‘parrucconi’, i critici e quelli che cercano sempre di inserire le cose in un canone prestabilito.
You’ve been with the professors and they’ve all liked your looks
With great lawyers you have discussed lepers and crooks
You’ve been through all of F. Scott Fitzgerald’s books
You’re very well read, it’s well known
Because something is happening here
But you don’t know what it is
Do you, Mister Jones?
Anni dopo, la sorpresa è ancora quella. Alla fine ha ragione lui.