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La notte della vittoria di Barack Obama, e delle speranze di Bob Dylan


Nell’Election Day del 2008, mentre Obama celebrava la vittoria a Chicago, Dylan diceva al suo pubblico che tutto stava per cambiare. Una promessa che non è durata a lungo.

Foto: Getty Images

«Per quanto riguarda me, io sono nato nel 1941», disse Bob Dylan sul palco il 4 novembre 2008, alcuni minuti prima che Barack Obama venisse dichiarato 44esimo Presidente degli Stati Uniti. «Nello stesso anno ci fu il bombardamento di Pearl Harbor. Da allora ho sempre vissuto in un mondo d’oscurità. Ma sembra che adesso le cose stiano per cambiare».

Fu un momento potente, persino scioccante, soprattutto per un cantautore famoso per non dire quasi nulla sul palcoscenico. Meno di quattro anni dopo, però, Dylan – forse imbarazzato dalla momentanea sincerità di quella sera – avrebbe ritrattato quelle affermazioni.

«Non so cosa ho detto e cosa non ho detto», ha spiegato a Rolling Stone in un’intervista prima delle elezioni del 2012. «Non so cosa intendessi dire. A volte dici delle cose e non sai cosa diavolo significhino».

Io posso spiegare con precisione quello che ha detto, e il significato delle parole di quel concerto del 2008, perché ero nel pubblico proprio mentre le pronunciava. Ero al secondo anno di college, e passai tutto il semestre autunnale in attesa di quel primo martedì di novembre, quando Dylan sarebbe tornato all’Università del Minnesota, la sua alma mater, per una serata “molto speciale” in occasione delle elezioni – era il suo primo concerto lì, il primo in assoluto.

Come molti giovani americani, gran parte del mio autunno 2008 fu inondato da una specifica sensazione d’attesa – un sentimento non proprio coerente nei confronti di un futuro che stava per rivelarsi, perché tutto stava per cambiare.

A differenza di molti dei miei amici, che avevano impiegato i mesi precedenti come volontari della campagna Obama, non avevo idea di tutte le conseguenze di un’elezione. La maggior parte di quello che conoscevo del mondo intorno a me non arrivava dall’esperienza diretta del potere e della politica, ma piuttosto dal consumo di quello che i miei artisti preferiti dicevano di quel mondo. Ero un giovane teenager di provincia cresciuto nel malessere dell’era Bush, e per me la politica era soprattutto espressione di puro scontento – qualcosa che i musicisti e gli scrittori criticavano nel loro lavoro, a volte direttamente, a volte in modo obliquo, qualcosa che canzoni come A Hard Rain’s A-Gonna Fall dicevano fosse importante.

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Quello che capivo era che per me il 4 novembre era la data di un qualche inizio sconosciuto, un inizio che sembrava tanto personale quanto politico. Avevo chiesto a una ragazza per cui avevo una cotta da tempo, anche lei ossessionata da Dylan, di venire al concerto elettorale con me. Come se non fosse abbastanza, quando siamo arrivati all’auditorium ho realizzato che eravamo seduti accanto all’editor di Rolling Stone Greil Marcus, uno dei miei eroi, che all’epoca insegnava in quell’università.

Ho passato gran parte della serata a guardare Marcus mentre guardava Dylan, osservavo come il mio idolo osservava il nostro idolo, cercando di capire quale grande significato emanasse il palco ogni volta che Marcus appuntava qualcosa sul suo quaderno.

Ma è durante la seconda canzone della scaletta, The Times They Are a Changin’, che i 5mila del pubblico sono esplosi di pura eccitazione. “Quella notte c’era talmente tanta storia in quella canzone che era impossibile non esserne sopraffatti”, avrebbe scritto Marcus su GQ. “Dylan ha diviso la storia in due: i tempi che quella canzone ha adesso superato, e quelli che d’ora in poi metterà alla prova. È diventata un avvertimento: nel passato, gli ascoltatori non avevano ancora vissuto la storia raccontata in quella canzone, ma ora devono farlo in prima persona, o tradirla”.

«Tony Garnier indossa la spilla di Obama. A Tony piace pensare che viviamo in tempi nuovi. Un’era di luce».

Era necessario un momento così importante per l’America, diceva Marcus, per liberare la musica di Dylan dalla nostalgia degli anni ’60. Durante tutto il resto del concerto il pubblico è esploso più volte, sempre in momenti molto simili, in attesa di strappare a Dylan un qualche tipo di dichiarazione (“c’era rivoluzione nell’aria”) da applicare al presente luccicante di quel periodo.

Ma la canzone che ricordo più nettamente di quel concerto arrivò senza luccichii a metà dello show. Beyond the Horizon, una ballad anni ’40 scritta per Modern Times, mi colpì più di qualsiasi altro brano dichiaratamente sociale. La notte delle elezioni, la nostalgia di quella canzone – per un amore desiderato, e per un domani migliore – era quasi insostenibile.

“I’m touched with desire”, cantava Dylan immerso in un blues solitario. “What don’t I do?” Cantava di un incontro da fiaba, quel tipo di unità nazionale che Obama raccontava nella sua campagna elettorale, un tipo di unità a cui io e altri milioni avevamo dedicato un intero autunno. “Beyond the horizon, across the divide”, cantava Dylan, “Round about midnight, we’ll be on the same side”.

Verso la fine del concerto, mentre arrivavano i primi sondaggi, il pubblico ancora senza iPhone fissava il cantautore 67enne, come se si aspettassero da lui una qualche indicazione sulla direzione che il paese avrebbe scelto. Bob Dylan ha passato gran parte della sua vita rifiutando quel ruolo – l’idea che lui fosse una sorta di incarnazione della verità americana -, ed è per questo che è stato così sorprendente quando, alla fine della serata, è tornato per il bis e per svelare al pubblico i suoi pensieri.

Dopo il passaggio su Pearl Harbor, Dylan ha presentato la sua band. «Tony Garnier», ha detto indicando il suo storico bassista. «Indossa la spilla di Obama. A Tony piace pensare che viviamo in tempi nuovi. Un’era di luce».

Mentre finiva l’ultima canzone della serata, Blowin’ in the Wind, un’euforia di massa galleggiava su tutto il pubblico. Tutti si affrettarono fuori dall’auditorium per guardare i risultati delle elezioni. Non più di 10 minuti dopo che Dylan aveva annunciato l’inizio della presidenza Obama, diventò ufficiale: l’era della luce era iniziata.

Barack Obama e Michelle a Grant Park, Chicago, il 4 novembre 2008. Foto Getty

“Il paese forse non è cambiato”, avrebbe scritto Marcus di quella notte, “ma la sua storia sì”.

La folla si riversò nella piazza fuori dall’auditorium. C’erano urla di gioia, studenti del college ubriachi; c’erano i loro genitori, felici come se fossero studenti ancora per una volta; c’era chi ballava, e chi gridava “No More Bush”. C’era il coro “O-BA-MA”.

Poco dopo la fine di Blowin in the Wind, a circa 400 miglia di distanza, Barack Obama era in piedi a Grant Park e parlava di una canzone che Sam Cooke aveva scritto come risposta a Blowin’ in the Wind. «C’è voluto molto tempo», diceva alle centinaia di migliaia di supporters, «ma questa notte… il cambiamento è arrivato in America».

Dieci anni dopo è difficile non sentirsi col cuore spezzato, imbarazzati ma ancora ispirati dall’ingenuo ottimismo di quella notte. Se Dylan si è lasciato trasportare dalle promesse del 4 novembre 2008, allora anche noi eravamo autorizzati a sentirci così, anche se solo per una notte.

E anche se l’estate successiva si sentiva abbastanza ispirato da pubblicare un pezzo intitolato I Feel A Change Coming On, alcuni anni dopo avrebbe riconsiderato la sua stessa speranza. Parlando con Rolling Stone, Dylan spiegò nel modo più onesto possibile le parole dette quella sera a Minneapolis. «Forse», ha detto, «ho detto quello che ho detto perché, in quel momento, tutto aveva un senso».

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