Max Collini (OfflagaDiscoPax) e Jukka Reverberi (Giardini di Mirò, CrimeaX e altri), rispettivamente voce e musiche di Spartiti, sono ritratti dietro un ammasso di ciocchi di legno in una delle foto del press kit di Servizio d’Ordine, l’ep uscito il 27 gennaio per la Woodworm. L’immagine è stata scattata durante le registrazioni di questa loro seconda pubblicazione ufficiale, fuori dal casale del Vacuum Studio immerso nella campagna bolognese, da cui in lontananza si vede il carcere Dozza di Bologna. «Siamo di provincia e quella realtà lì, quella di rimanere fuori dai grandi giochi, ci piace parecchio» ci ha spiegato Jukka. Il loro è un atteggiamento suprematista quanto le grafiche delle copertine dei due dischi di Spartiti, che «nella loro semplicità, riescono a descrivere un mondo, senza orpelli e tecnicismi, con un po’ di rigore e un’idea potente», come dice Jukka. I loro pezzi «hanno pochissimi suoni, la parola è centrale con alcuni suoni di contorno, mai più di due o tre strumenti che vanno contemporaneamente, qualcosa di molto asciutto che però ha un’idea portante molto forte». E quest’idea nasce dai luoghi e i tempi in cui sono nate e cresciute le culture politiche, musicali e umanistiche da cui entrambi provengono.
Lo scorso 11 marzo sono tornati al Monk di Roma per la seconda edizione di Manifesto – We Are The Music Makers, la rassegna, dedicata prima alla musica elettronica e poi alla sua commistione col folk, che in queste ultime due date ha avuto in line up artisti provenienti da tutto il mondo. Sul palco con gli Spartiti, le videoproiezioni di Filippo Biagianti, una pila di libri sul PCI e la musica underground italiana, il leggio di Collini e gli aggeggi elettronici di Reverberi con la sua fedelissima chitarra.
Gli Spartiti saranno in tour in tutta Italia, noi abbiamo intercettato Jukka poco prima del live romano.
Quest’edizione di Manifesto era dedicata al folk-elettronico. Ti ritrovi in questa classificazione?
Non ci avevo mai pensato in quest’ottica, però ci sta. Per noi l’elettronica è centrale nella musica e quello che facciamo è una nostra idea di folk inteso nell’accezione del genere che racconta un paese, non come linguaggio musicale.
Cosa pensi della scena live italiana?
Credo che abbia i numeri più grossi da tantissimo tempo a questa parte, soprattutto nella scena dei cantautori italiani indipendenti, anche se non sono proprio cantautori. Mentre vedo un po’ in difficoltà chi prova a fare cose leggermente fuori dagli schemi, c’è carenza di pubblico da quelle parti, non so mai se dipenda effettivamente dalla proposta artistica o dal pubblico che è abbastanza seduto in questo periodo. Poi, per fortuna, nella musica ci sono i cicli, quindi magari ne riparleremo tra cinque anni e sarà cambiato tutto.
Come nasce il progetto Spartiti e perché avete scelto questo nome?
Il nome Spartiti era chiuso in un cassetto di Max, l’ha tirato fuori lui e andava bene perché quella parola per me rappresenta sia lo spartito musicale che i partiti spariti di cui noi, in qualche modo, avevamo fatto parte. Il progetto nasce tantissimi anni fa ormai, circa una decina. Con Max Collini scherzavamo sul fatto che potremmo quasi festeggiare un decennale di brevissima carriera, dico brevissima perché gli ultimi anni sono stati i più intensi. Abbiamo iniziato la scorsa estate con un concerto a Verona. Max era stato invitato per un reading a cui non se la sentiva di andare da solo e mi aveva chiamato come supporto musicale. Avevo collaborato con gli OfflagaDiscoPax quindi eravamo amici. Ci trovammo a suonare in piedi su due pallet, quelli su cui di norma ci stanno le merci da distribuzione, quindi (ride, ndr) il progetto è nato così. Lui mi inviava i testi e io preparavo le basi a casa, e, in modo molto sporadico, facevamo qualche concerto. Siamo andati avanti così per parecchi anni fino a quando, nel 2013, l’Arci di Reggio Emilia ci ha chiesto di preparare un progetto che fosse, come dire, ben scritto e progettato, con l’intenzione di presentarlo a un festival. Da quell’evento è nato Austerità, il nostro primo disco con libretto, uscito a marzo del 2016 per la Woodworm.
La prima traccia di Servizio d’Ordine è dedicata ad Andrea Bellini, scomparso lo scorso anno. Perché avete scelto questa figura militante italiana?
Anche se non lo abbiamo suonato per anni, questo pezzo ce lo portiamo dietro da un po’ di tempo con altre basi. In realtà abbiamo scelto la figura militante viva nelle parole dell’autore del libro La banda Bellini, Marco Philopat. Il suo è un punto di vista molto particolare. Bellini era a capo del Servizio d’ordine milanese, non era certo uno stinco di santo, era uno che le dava di santa ragione e che aveva le idee ben precise. Io conoscevo la storia dai racconti di mio padre che era un militante del PCI. Anche lui andava a fare i servizi d’ordine, il suo punto di vista era diverso ma la tensione e l’angoscia interpretata da Marco Philopat anche in un’unica pagina sono molto simili. E’ stato molto bravo.
Pensando alle figure militanti, oggi non ce ne sono poi così tante, non credi?
Era una militanza che è costato il cranio a più di una persona, siamo fortunati a non vivere più quel clima. D’altro canto però, oggi abbiamo davvero recuperato e fatto nostro il “no future” che cantavano i gruppi punk. Forse stiamo proprio vivendo l’incubo claustrofobico e senza speranza descritto dalla musica industriale. Quindi sì, figure militanti non ce ne sono ma ahimè non ci sono neanche i grandi pensieri in circolo.
Mancano forse le figure intellettuali o credi siano state sostituite da alcuni musicisti?
Io credo che il musicista possa avere un ruolo, che è quello di usare la sua sensibilità per parlare del presente e anche di politica. Ma questo non è sufficiente. Quando il musicista si mette a fare il comizio non me ne frega già più nulla. Come quello dell’intellettuale, il suo è un ruolo difficilissimo che in un secondo rischia di farlo diventare un professorone. Mentre prima il musicista doveva provare a raccontare il presente e a immaginarsi un futuro con poche parole, oggi l’utilizzo di pochi caratteri è stato destinato ai social network dove abbondano le banalità. Il pensiero serio manca un po’, ma forse perché la nostra generazione, parlo della mia, quella dei quarantenni, non è all’altezza della sfida. E’ stata troppo bene prima e non riesce forse a trovare gli strumenti per difendersi e proporre qualcosa di nuovo.
Il vostro ep attraversa in cinque tracce la storia d’Italia dalla seconda guerra mondiale fino a oggi. Possiamo intenderlo come un concept EP?
Non l’avevamo proprio pensata in questo senso e la scaletta l’abbiamo fatta all’ultimo, ma c’è qualcosa che racconta una storia d’Italia fino agli anni 2000, perché poi lì ci fermiamo. E’ una sorta di affresco, un ritratto d’Italia parziale perché fatto da persone dell’ex provincia rossa italiana che aveva un filtro tutto suo per leggere l’Italia e il presente. Quindi alla fine sì, è diventato un concept ep.
Quindi, anche nella tua musica c’è una sorta di campagna politica?
C’erano quelli che dicevano: “il privato è politico”, “tutto è politica”. Trattiamo la politica nei nostri testi ma sotto forma di racconto e non di comizio. Il punto di vista è sempre da una prospettiva molto soggettiva perché le storie che Max racconta parlano di lui utilizzando però anche la storia e la politica. Questo ep potrebbe essere una sorta di Bignamino della storia d’Italia da cui prendere spunto per innestare qualche ragionamento. Ecco, questo per noi sarebbe di per sé un successo e un risultato politico non indifferente.
L’arte del campionamento e l’inserimento di suoni ambientali giocano un ruolo fondamentale nelle tue composizioni.
Io sono prima di tutto un appassionato di musica. Passo più tempo ad ascoltare musica che a comporre e a suonare; la chitarra la suono solo in sala prove o quando devo scrivere qualcosa. Il bagaglio di suoni che ho nella testa è dovuto a 25 anni di ascolti ed è il mio patrimonio che ogni tanto salta fuori. Se con i Giardini di Mirò c’è uno schema sonoro che mi guida in una direzione, in Spartiti, in cui devo fare tutto da solo, ho una grandissima responsabilità ma anche una gran libertà perché posso rimettere in discussione quelli che sono stati per un bel po’ di tempo i miei schemi compositivi. La musica elettronica mi è sempre piaciuta tantissimo ma sono un grande cane nell’usare i programmi informatici, li uso al minimo. Sono stato sponsorizzato quindici anni fa da Live di Ableton e probabilmente ancora oggi continuo a usarlo al 15%, non l’ho mai studiato. Ecco, quest’approccio che ho sempre avuto, cioè di non studiare lo strumento, forse mantiene fresco il mio modo di comporre. Ogni volta devo inventare una soluzione per portare a casa un pezzo, e questo mi obbliga a prendere qualche rischio e a fare qualcosa di diverso dal solito. C’era un inserto di un 45 giri del punk degli albori in cui erano disegnati la tablatura di tre accordi con su scritto: “va be’, tre accordi bastano per fare musica e mettere su un gruppo. Quel resto che conta sono le idee”. Ecco, credo di aver seguito quella lezione.
Quindi sostanzialmente sei un punk?
Mi piacerebbe poter dire di sì ma, non ho mai avuto un grande rapporto con la ribellione, sono un punk anomalo perché da ragazzino ero uno straight edge e seguivo il giro hardcore di quelli salutisti. Quindi, insomma, faccio sempre le robe un po’ a metà.
La base di Borghesia rimanda alla black music, frequenti anche quel mondo musicale?
Mi piacciono molto quelli bravi a lavorare coi sample, come David Holmes e Dj Shadow, che costruiscono canzoni utilizzando anche idee di altri e quel tipo di suono, di colore e calore. Mi piace molto anche l’hip hop quando è strumentale, un po’ perché mi piacevano alcune cose del vecchio hip hop italiano che ascoltavo quando ero al liceo nei primi anni 90. Ma non è la mia musica, ho problemi con le testualità, soprattutto quelle inglesi che non capisco tanto bene. Ma il beat e il modo di costruire pezzi lo trovo stupendo. JDilla, che ha fatto anche dei dischi interamente strumentali, mi piace da matti. Sono contento che tu me l’abbia chiesto perché il mio era un tentativo di approcciarmi a un mondo, che culturalmente non è mio, coniugando con le basi e le parti ritmiche ad altri suoni.
Quali sono stati i musicisti italiani più influenti per la tua formazione sia musicale che etica?
Be’, la cover Qualcosa sulla Vita dei Massimo Volume presente in questo ep c’è per un motivo. E’ stato uno dei gruppi che ho amato di più e che amo tuttora della musica italiana. Quando ho iniziato da ascoltatore e anche da musicista, li ho sempre trovati un gruppo con cui confrontarmi perché li ho sempre visti come una splendida anomalia nel panorama italiano. Poi, io e Max siamo legati a quel pezzo da un legame intimo: fu Enrico Fontanelli degli Offlaga a farlo conoscere a Max. Enrico era anche un mio carissimo amico e tenere quel pezzo è un modo per stare ancora assieme.
Dei contemporanei apprezzo molto Jonathan Clancy degli His Clancyness perché si muove come si faceva davvero con la musica indipendente, cioè facendosi le cose da solo. Nonostante due anni fa l’abbia incontrato con la FatCat, una grossa etichetta indipendente inglese, ha continuato per scelta a rivendicare un suo ruolo nel fare musica indipendente creando una sua etichetta, organizzando un suo festival e portando il suo gruppo anche all’estero. Poi io per formazione ho frequentato molto l’hard core italiano, quindi tante esperienze di questa scena, il modo di concepire la musica più del suonarla, l’essere sempre in rete con musicisti diversi da te ma affini, sono state una lezione fondamentale.
Possiamo pensare che Servizio d’Ordine preceda un disco completo?
No, questo era la coda della prima parte della nostra carriera – ho esagerato ma la dico così (ride, ndr) – era la coda del disco di Austerità. Questi pezzi erano lì, ci piacevano e ci sembrava sbagliato non finire questa prima fase. Facciamo come fanno i partiti politici, apriremo poi la fase due: la seconda repubblica di Spartiti. Sappiamo che, forse, dovremmo mettere in campo qualche idea nuova per un prossimo disco. In futuro non so cosa ci sarà, c’è sicuramente la voglia di continuare a lavorare assieme, perché ormai lo facciamo da tanto tempo e la cosa ci sta riuscendo ancora con piacere.
Avete mai pensato di aggiungere qualche strumentista al duo?
La risposta tutta mia è: va benissimo così, perché dopo anni di Giardini di Mirò, dove siamo almeno in sei sul palco, non andare in otto su un furgone ma in due è di una bellezza e di una semplicità (ride, ndr)! Perché poi invecchiando si diventa anche un po’ più pigri, quindi due è un formato perfetto. E’ chiaro che pensando al futuro tutto i giochi sono aperti. C’è però da dire che questa formazione ci permette di andare ovunque con costi per tutti molto più bassi. Il Nuovo Mondo ha un suo nuovo regime economico, di cui anche i gruppi ne fanno le spese, o comunque si adeguano alla realtà.
State lavorando qualcosa di nuovo con i Giardini di Mirò?
A dire il vero sì, diciamola così: siamo in forma. Mi limito a dire questo, stiamo bene e il 2018 potrebbe essere un anno interessante.