Bob Dylan e io abbiamo iniziato su lati opposti della stessa strada. Quando l’ho ascoltato per la prima volta ero già in una band, e suonavo rock & roll. Non sapevo granché della musica folk. Non sapevo quanto fosse importante quel cantautore. Ricordo che qualcuno mise su Oxford Town, da The Freewhelin’ Bob Dylan. Pensai: “Qui c’è davvero qualcosa”. La sua voce mi sembrò interessante, ma non ho capito perché fino a quando non ho iniziato a suonarci insieme.
È un cantante potente e un grande attore musicale, nella sua voce sono nascosti molti personaggi. Ricordo bene la politica dei primi brani. Era entusiasmante ascoltare le canzoni di qualcuno che avesse qualcosa da dire. Ma quello che mi colpì davvero era l’influenza che la strada aveva sulla sua musica, l’abbandono del Minnesota, il viaggio e New York. C’era una durezza nel modo in cui trattava i suoi personaggi, una ribellione, in un certo senso, contro la purezza del folk. Quando ha scritto Like a Rolling Stone o Ballad of a Thin Man, di certo non stava cazzeggiando. Era un ribelle contro i ribelli.
Lavorando con Bob ho capito subito che non gli piaceva avere a che fare con i musicisti. Preferiva i poeti, come Allen Ginsberg. Quando andavamo in Europa, spuntavano poeti dappertutto. La sua scrittura era profondamente influenzata dalla poesia, lavorava per immagini in maniera opposta alla tradizione del rock & roll. L’ho visto cantare Desolation Row e Mr. Tambourine Man in acustico, nel ’65 e ’66. Non avevo visto niente del genere, nessuno riusciva a comunicare quanto lui con solo una chitarra e un’armonica. E la gente gli andava dietro, ascoltava le sue storie e le sue canzoni.
Quando siamo andati insieme a Nashville per lavorare a Blonde on Blonde, nel 1966, ho visto per la prima volta un cantautore dietro una macchina da scrivere. Entravamo in studio e si metteva a lavorare sui testi, su quello che avrebbe dovuto cantare. Ricordo il rumore – click, click, click, ring, a grande velocità. Scriveva quelle parole così rapidamente, aveva tante cose da raccontare.
Cambiava di continuo, anche durante le registrazioni. E questa è un’altra cosa che ho imparato in fretta. Gli Hawks avevano bisogno di capire la direzione del brano, gli accordi, il bridge. Bob non amava le prove. Era abituato a fare tutto da solo, con la chitarra acustica. Ricordo che gli chiedevamo: «Beh, come finisce la canzone?» e lui rispondeva «Beh, quando è finita, è finita. Ci fermiamo». Ad un certo punto ci sentivamo pronti a tutto – era una bella sensazione. Pensavamo: «Ok, può stravolgere tutto da un momento all’altro. Sono pronto».
Per quanto riguarda la mia scrittura, invece, ho imparato che non c’è niente di male a rompere le regole. Per esempio: la lunghezza, la comprensibilità della tua storia. Era fantastico, aveva mostrato la strada a tutti, e improvvisamente il cielo si era riempito di possibilità. Penso che Bob fosse davvero innamorato delle sfide, voleva cercare idee nuove che lo facessero sentire bene, e continuare così all’infinito fino a quello che fa ora. Adesso scrive canzoni belle tanto quanto quelle dei suoi primi anni. Sono piene d’onestà. Scrive di quello che vede e di quello che sente, scrive di se stesso.
Passavamo molto tempo insieme negli anni ’70. Abitavamo entrambi a Malibu e sapevamo come funzionavano le nostre routine quotidiane. Adesso so che Blood on the Tracks rifletteva quello che gli capitava in quel periodo. Quando scrive è come se impugnasse uno specchio – adesso sono sicuro che sia così.
Credo che Bob volesse solo diventare un buon cantautore. Quando la gente gli dice: “Oh, dio, hai un tale effetto sulla cultura contemporanea, sulla società”, non credo sia d’accordo. Non credo che Hank Williams sapesse perché le sue canzoni fossero più commoventi di quelle degli altri. Credo che Bob pensi: “Spero di riuscire a scrivere un’altra bella canzone”, e basta. Mette un piede davanti all’altro e segue la sua ispirazione.