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La prima volta di Ghali

Nonostante si stia trasformando in una popstar, in un Jovanotti di seconda generazione con la periferia nell'animo, Ghali sembra sempre più sicuro. E ha ragione lui. Il live nei palazzetti regge, supera la trap e invade il pop.

Ghali, foto di Alessandro Bosio

«Sei contenta? È il tuo primo concerto e ti vedi Ghali»
«Sì, ma ho un po’ di paura, c’è tanto casino!»
«Amore, ma i concerti sono così!»
Il padre prende per mano la figlia e si reinserisce nella lunga coda in attesa di entrare nel palazzetto.

La stanza è piccina, bianca, spoglia. Siamo nel piano interrato. Il soffitto è un labirinto di tubi metallici che si rincorrono. Noi giornalisti siamo disposti in due file di sedie: un plotone d’esecuzione ammaestrato. Seduto di fronte a noi, in total outfit Gucci, l’enfant prodige della nuova musica italiana: Ghali. Risponde alle domande con calma serafica, si ferma, pondera le risposte nel tentativo di darne il giusto peso, mentre un esercito di dita batte furiosamente sulle tastiere di computer e tablet. È il rumore del giudizio. L’impressione è che ci sia un naturale filo di nervosismo per questa prima data del tour, evidenziato da questo straniante ticchettio. Ma Ghali fa di tutto per mostrarsi sicuro, a proprio agio, sopra a tutto. È la mutazione che lo sta portando a diventare una popstar professionista, un artista che ha come obiettivo quello di stanziarsi nel mainstream italiano senza andarsene mai più. Ghali è qui per rimanere, oggi pare chiaro.

E ha ragione lui. Il live regge. Ghali balla, canta, rappa. Supera la trap ed invade il pop. È una popstar. Il pubblico lo ama (il palazzetto è gremito, 7/8 mila persona), lui si fa amare e si sa far amare. C’è l’ammiccamento, il passo giusto, la retorica sull’aver reso felice sua madre. La narrativa è vincente: dai palazzi ai palazzetti. La messa in scena è la sua autobiografia: un lungo clip sulla madre in fuga dalla Tunisia, la sua infanzia, i tempi del rap, dell’adolescenza, la trap, il successo, Sto. La trama è quella del ragazzo che non avrebbe dovuto farcela, ma che alla fine ce l’ha fatta. Il pischello del quartiere che raggiunge il successo. Per questo, nell’arco della serata, ringrazierà ripetutamente la mamma e gli insegnanti delle superiori che gli hanno fatto scoprire questo talento. È tutto molto edulcorato, buonista, incredibilmente giusto e positivo. In una parola, pop.

Quando, per l’ultimo brano, inizia a suonare il tamburo sulla lunga pedana che lo conduce in mezzo al pubblico, la somiglianza è così palese, che non possiamo esimerci da un pensiero: Ghali sarà il nuovo Jovanotti. Rivisitato, rivisto, ammodernato. Upgrade 2.0, che piace alla mamma, al papà, al figlio, alla figlia. Come ci dice lui stesso in quello stanzino asettico, «ho questa immagine di una famiglia in viaggio in macchina dove nessuno litiga per la musica perché la mia li mette d’accordo». Ecco, non poteva spiegarlo meglio. Un Jovanotti di seconda generazione con il santino di Michael Jackson e la periferia nell’animo.

Il live è uno spettacolo, teatralizzato, in cui succede molto. Ma non vi spoilero. Anzi sì, ho cambiato idea: Ghali parla con Jimmy, l’amico immaginario, viene bullizzato da Jimmy, l’amico immaginario, viene rapito, inciampa, diventa un terribile cartone animato dalla pelle pelle rosata, riparla cento volte con Jimmy, sto cazzo d’amico immaginario, ammicca ad una ragazza in prima fila, redarguisce uno che sbadiglia, filma il pubblico, chiama sul palco Capo Plaza, chiama sul palco Charlie Charles, cambia quattro outfit Gucci, apre un cartone con una pizza kebab, trasforma Happy Days in Wanna Be Startin’ Somethin’ di Michael Jackson, fa il moonwalk.

Succede molto, sì. La band funziona. Riempie il palco senza infastidire la scenografia, e rende i brani più vivi, densi, veri. In particolare le aggiunte percussive animano il beat e le coriste sorreggono i cantati con vigore. La scenografia è stupenda: dal disegno luci, al led wall a quelle tecnologie che sono talmente avanti da non saperne il nome. A volte siamo in un’astronave, a volte in un cerchio magico, a volte Ghali c’é, a volte no. Le entrate e le uscite di scena sono sempre pulite, poco palesi, elegantissime. Ghali è ELEGANTISSIMO. Sia nell’estetica cucitagli addosso da Ramona Tabita che sicuramente è ciò che l’ha reso, subito, più credibile nella sfera pubblica, sia nei movimenti. Il ragazzo è bravo, ha talento, sa tenere il palco. E pensare che un anno fa i suoi live facevano veramente cacare. È la dimostrazione che studiare, imparare, crescere è obbligo dell’artista. Questo è ciò che ci fa veramente sperare in Ghali: l’intelligenza nell’aver capito il suo ruolo.

La copertina di ‘Ninna Nanna’. Foto di Giuseppe Palmisano.

Il pubblico rimane incollato anche nei passaggi non fortunatissimi. Come per tutta la storia di Jimmy, l’amico immaginario di Ghali. Una voce fuoricampo addomesticata, data in mano al classico doppiatore italiano che risulta fake e cheap, senza vitalismo e umanità. Fuori contesto. Un autogol per la narrativa imbastita in tutto lo spettacolo che sì, è zuccherosa e un po’ facile, ma comunque umana e reale. O il già citato jovanottissimo cartoon che strizzia l’occhio al pubblico dei giovanissimissimi. O i momenti più rap, e fuori luogo, come la presenza cacofonica di Capo Plaza (Ne è valsa la pena è il pezzo meno riuscito del set, con l’autotune che fa a cazzotti con l’acustica) e quella inutile di Charlie Charles in Peace & Love, dove il producer si ritrova chiamato in passerella in un disagio weird che lo porta a fare qualche mossetta goffa prima di tirare fuori lo smartphone per qualche stories su Instagram. Ecco, la dimostrazione che non tutta la trap è all’altezza di Ghali. Ok, sembro ipercritico, è vero, ma è solo perché il live è ad un passo dall’essere ottimo e questi retaggi rap e pop risultano drammaticamente âgé.

Un’ora e mezza di live, oltre venti canzoni, quattro oufit, tre atti, ottomila persone. I numeri stanno tutti dalla parte di Ghali. Come sempre. L’anno e mezzo che ha separato l’uscita di Album da questo tour nei palazzetti è stato vitale per il talento del nostro golden boy; ora è pronto.

Si accendono le luci e torniamo alla realtà. Non sono un fan di Ghali come potrebbero essere i giovanissimi che corrono urlanti e felici per il parterre con le fascette della serata legate in fronte. Nemmeno sono il genitore che rimane un po’ indietro, gustandosi lo show come un leggero guilty pleasure. Non sono né il poderoso giornalista intellettuale (e vi assicuro che nel box giornalisti se ne sentono oltre il necessario), né il musicista hater che rosica per il successo della trap. Quando si accendono le luci, e torniamo alla realtà, sono l’inviato di Rolling Stone che pensa di aver visto qualcosa di bello, di ottimo per gli standard della musica italiana. Ghali non è più il futuro, ma il presente che ha in mano il proprio futuro. Ora non ci resta che sperare che continui in questa direzione perché, giovanilistiche scivolate a parte, è quella giusta. Ghali – in questo momento storico – è un bene. Per fortuna.

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