Fino a qualche tempo fa, qualunque tipo di polemica attorno al mondo della musica “indie” si protraeva per giorni e giorni, occupando a tempo pieno gli addetti ai lavori e gli ascoltatori in lunghe ed estenuanti sedute sui social, mentre, per esempio, Manuel Agnelli e Elisa non sapevano cosa fosse la trap, nonostante il fenomeno fosse già abbastanza in ascesa in Italia.
Quest’anno invece, a giudicare dalle classifiche “Viral 50 Italia” o “Top 50 Italia” di Spotify o dalle visualizzazioni su YouTube, il confronto sembra impietoso, sia in termini di numeri che in termini di attenzione mediatica, complice forse un 2017 privo di pubblicazioni particolarmente eclatanti per il famigerato indie italiano, alle prese con la dipartita dei TheGiornalisti e una contemporanea esplosione definitiva della trap.
In teoria questi due universi dovrebbero viaggiare su due binari paralleli, da un punto di vista esclusivamente musicale risultano addirittura opposti: la trap che ruota tutta attorno alla qualità delle basi e l’indie che mette il testo al primo posto. In realtà però, i punti di paragone e di contatto sono numerosi e non è un caso che lo scorso anno Calcutta abbia fatto aprire i suoi concerti a Rkomi – che peraltro appare anche tra gli “artisti simili” ai TheGiornalisti, suggeriti da Spotify – o che quest’estate ai festival storicamente a propulsione indie come Roma Brucia o Mi Ami, abbiano trionfato rispettivamente Carl Brave x Franco 126 e Liberato. Un segnale non da poco, che permette di immaginare una linea di continuità tra i due generi e delle forti similitudini nei punti storicamente caratteristici dell’indie, tanto che potremmo chiederci: la trap è il nuovo indie?
In primo luogo, rispetto a cinque o dieci anni fa – quando prevaleva una certa diffidenza o snobismo reciproco di fondo tra “alternative” e “rap” – oggi un ascoltatore dei Baustelle va ai concerti di Ketama 126 senza la paura di tradire un ideale e senza temere di mandarsi in pappa il cervello passando da ritornelli come “Essere felici non è facile/ è folle ma impossibile/ è musica sinfonica in discoteca” a barre tipo “esse’ felici senza essere ricchi non è mica facile/ spero ci sia un lieto fine mancano ancora un po’ di pagine/ non voglio finire a spaccarmi la schiena con quattro rumeni”.
Il crollo del tabù del radical chic va di pari passo con un altro cambiamento significativo e interessante per questa analisi, ovvero la questione dell’età: oggi un quindicenne e un trentenne (potremmo spingerci fino ai quarantenni) ascoltano entrambi Tedua senza alcun disagio per l’abisso generazionale che c’è tra loro, proprio come accadde al termine degli già archiviatissimi anni zero, quando ai concerti de Le luci della centrale elettrica si creava un’insolita commistione tra il pubblico di adolescenti che tornavano a casa accompagnati dai genitori e trenta/quarantenni che coglievano nelle citazioni del ferrarese reminiscenze di cantautorato impegnato e di spessore. Andando un po’ fuori tema potremmo appellare questo alla crisi di due generazioni che si sono sovrapposte e che ora rischiano di condividere gli stessi problemi economici e sociali, in una recente chiacchierata a tal proposito tra Francesco Pacifico e Raffaele Alberto Ventura uscita su Il Tascabile, si legge: “Siamo tutti vittime della storia e ci accusiamo a vicenda come se il fatto che ci piaccia l’ultimo disco di Calcutta fosse il motivo per cui non possiamo aprire un mutuo”, allo stesso modo dell’indie, oggi la trap è in grado di rivolgersi trasversalmente a una fascia di età così ampia e diversificata.
Partendo da questi presupposti è facile porre l’indie e la trap sullo stesso piano anche dal punto di vista del bagaglio politico, nel momento in cui in entrambi i casi è inesistente ed è rivolto – o quantomeno recepito – a un pubblico in sostanza borghese. Sebbene nella trap ci siano inevitabili riferimenti alla vita di strada, essi non hanno alcun legame ad esempio con i luoghi dove poi in effetti si svolgono i live, un po’ in tutta Italia appiattiti in locali che non sono legati a nessun senso di appartenenza né sociale, né di genere musicale, rispecchiando alla perfezione una crisi d’identità diffusa dei cosiddetti spazi culturali. È forse questo il nodo principale che permette di ipotizzare un passaggio di consegne tra la trap e l’indie: il messaggio che lancia, il racconto generazionale, la descrizione del luogo comune che non divide veramente ma nel quale ci si ritrovano un po’ tutti, l’evoluzione di quelle che un tempo erano le pagine Facebook “quelli che”, grossi contenitori di vita quotidiana, che un tempo erano per esempio i testi de I Cani, Amor Fou, dello stesso Brondi e che restano il motivo principale del loro successo e della creazione di una cosiddetta scena di riferimento e della narrazione di un’epoca, oggi sono gli stessi aspetti – decorati ulteriormente di aspetti caratteristici – che si ritrovano nei testi di Carl Brave o della Dark Polo Gang e quindi gli stessi strumenti per customizzare il pubblico.
Dai pariolini di 18 anni alle Enjoy, il passo è breve, e a oggi l’estetica e l’attrattiva della trap sembrano avere molte più cose da dire, rispetto a un indie in crisi d’identità, probabilmente destinato a caricarsi una volta per tutte il suffisso “pop” per abbandonare le velleità di un tempo e crescere come dovremmo fare tutti, perché non si può avere per sempre vent’anni.