Parigi, autunno 1967. “Voglio che tu mi scriva la canzone d’amore più bella del mondo”, fa lei rotolandosi tra le lenzuola. Poi gli sorride, si gira e si addormenta. Serge Gainsbourg si siede all’enorme pianoforte a coda che campeggia nel salone della sua casa in Rue de Verneuil. Butta giù qualche accordo che gli viene subito facile, e con la stessa naturalezza segue il testo (che sia la scioltezza nella creazione, e non il tormento, il vero crisma del genio?). In un paio d’ore ce l’ha, può tornare da lei: “Vieni”, la sveglia, “devo farti sentire una cosa”.
A questo punto è richiesto un piccolo sforzo d’immaginazione per figurarsi la scena. Perché la leggenda narra che lei, coperta solo dal lenzuolo, si adagi languidamente sulla coda del piano che lui sta suonando, lo ascolti rapita e infine approvi: sì, è la canzone d’amore più bella del mondo. Forse il dettaglio di lei seminuda sul pianoforte fa un po’ troppo diva, ma in questo caso il divismo ci sta tutto: del resto, la canzone è Je t’aime, moi non plus. E lei beh, lei è Brigitte Bardot.
Parigi, autunno 1969. Serge Gainsbourg e Jane Birkin sono la coppia mitica della Francia post-sessantottina: lui nouvelle vague e lei swinging london, lui quarantenne libertino e lei ingenua ventenne, lui genio creativo e lei musa ispiratrice. Amore folle e sprezzo delle convenzioni, gusto della provocazione e senso del personaggio li rendono perfette icone del loro tempo: il pubblico li adora, i paparazzi li assediano, la stampa ci sguazza. Pochi mesi prima, a luglio, è uscita quella che resterà per sempre la loro canzone: Je t’aime moi non plus, la descrizione parimenti poetica e esplicita di un amplesso che culmina in un’acme simultanea di sospiri.
È vero orgasmo? Nella disinvolta Francia scandalo e successo scoppiano insieme, e nel giro di qualche giorno il disco vende cinque milioni di copie (no Spotify, no video, no download: cinque milioni di dischi fisicamente prodotti, distribuiti e venduti). Nell’austera Inghilterra, patria di Jane, il brano viene censurato dalla BBC e ne viene vietata la vendita. Nella cattolica Italia è allarme pornofonia: il disco esce e scala le classifiche, ma viene dapprima censurato dalla Rai, poi (nientemeno) scomunicato dal Vaticano e infine ritirato su ordine della Procura di Milano. Ma l’ondata di consenso è incontenibile, il disco viene importato e venduto clandestinamente e la gente ascolta Radio Monte Carlo e Radio Capodistria, le uniche che continuano a passarlo, manco fosse Radio Londra durante la resistenza. Insomma: internet non esiste neanche nella mente degli Dei, ma è un successo che non è esagerato definire virale.
Cos’è accaduto in quei due anni? Perché Jane Birkin canta la canzone di Brigitte Bardot? È successo l’inverosimile, quello che nelle storie d’amore di noi mortali mai accadrà ma che lassù, nell’Olimpo, è solo un banale miracolo, un twist narrativo come un altro: il rimpiazzo è diventato amore assoluto. Perché su questo non c’è dubbio: la mitologica Birkin, la musa, l’icona, questa figa suprema a cui tutte noi ci siamo ispirate meditando di tagliarci la frangia, colei che ha dato il nome alla borsa di Hermès che tutte vorremmo (prezzo base, ottomila euro), in principio era solo un rimpiazzo. Je t’aime moi non plus non era per lei. E infatti esiste un’incisione in cui Gainsbourg duetta con la sua vera destinataria: il 10 dicembre 1967 Serge e Brigitte, nel segreto dello studio Barclay du Parigi, registrano i loro 4minuti e 32 secondi di amplesso musicale. Vale la pena di ascoltarla, quella registrazione: è più ampollosa della versione poi passata alla storia, ma come simula (o non simula?) un orgasmo Bardot, francamente, nessuna. Il problema è che Brigitte all’epoca è sposata con Gunter Sachs, miliardario svizzero e fotografo a tempo perso: pubblicare Je t’aime moi non plus sarebbe come ammettere pubblicamente l’adulterio. La registrazione resterà segreta – Serge non metterebbe mai in difficoltà Brigitte – salvo poi apparire con l’accordo di entrambi nel 1986, per la Philips.
L’amore tra Gainsbourg e Bardot è un fuoco di paglia: tre mesi e lei lo molla, precipitandolo nella depressione più nera. Non così nera, però, da non fargli vedere il punto: quel pezzo spacca. A iniziare dal titolo, quel sublime nonsenso (“Ti amo/ neanch’io”) che cita una dichiarazione di Salvador Dalì a proposito di Pablo Picasso: “Picasso è spagnolo, anch’io. Picasso è un genio, anch’io. Picasso è comunista, neanch’io”. Gainsbourg si infila con noncuranza tra due mastodonti del Novecento, ma introduce anche una questione semantica più sottile, come spiegherà a Lietta Tornabuoni in un’intervista per l’Europeo: “La ragazza afferma: ti amo, e lui risponde: neanch’io. Come se lei avesse detto la verità, cioè che in realtà non è innamorata, crede soltanto di esserlo perché è intenerita dalla sensualità”. Come dire che in taluni fortunati frangenti una donna un “ti amo” non lo nega a nessuno, salvo dimenticarsene subito dopo (questa segnatevela: non è molto lontana dalla verità). Il pezzo spacca, si diceva. E proprio perché spacca, Serge si mette alla disperata ricerca di una sostituta di Brigitte, se non nel suo cuore almeno in studio. Ci prova più o meno con chiunque, da oscure starlette inghiottite dall’oblio a icone totali come Marianne Faithful, passando per Valérie Lagrange, Mireille Darc e via elencando. Il lieto fine arriva nell’autunno del 1968 sul set di Slogan, un film di Pierre Grimblat a cui si deve l’unico merito di aver fatto conoscere Serge Gainsbourg e Jane Birkin, all’epoca un’anonima attrice inglese brevemente apparsa in Blow-up di Antonioni: i due si odiano per 48 ore buone, poi escono a cena e improvvisamente non si odiano più.
Il resto è storia: Serge le regala Je t’aime moi non plus e Jane la fa sua, nel 1971 nasce Charlotte, e poi altre canzoni, altri successi che scorrono via velocissimi lungo i loro tredici anni di vita comune. Fino alle intemperanze alcoliche di lui, l’esasperazione di lei, la separazione, e tutti e due che si risposano e tutti e due che hanno altri figli, ma sempre con quell’idea di coppia cristallizzata nel mito: “Tra me e lei, c’est éternel”, ammetterà lui nel 1990. Finisce, l’eterno, il 2 marzo 1991 con la morte di lui, le lacrime di lei, e di lì in poi gli innumerevoli omaggi e rifacimenti di Je t’aime moi non plus. L’ultimo frame in ordine di tempo è recentissimo: dieci giorni fa alla Carnegie Hall di New York, Jane – sempre bella, sempre piena di grazia – ha cantato il suo nuovo album Birkin/Gainsbourg: le symphonique. Un’interpretazione da brivido, la prima che vede le canzoni di Gainsbourg eseguite da un’orchestra sinfonica: se l’idea della musica che va oltre la morte non suonasse così retorica, qui – precisamente quando lei alza lo sguardo, chiude gli occhi e sussurra “thank you Serge” – sarebbe proprio il caso di usarla. La canzone d’amore più bella del mondo, però, Jane non l’ha fatta. Perché quella è Serge che l’ha scritta per lei, ancora prima di conoscerla. E sì, era per un’altra, ma la verità è che è sempre stata sua.