Allora: cominciamo col rispondere ad alcune domande. Perché Rolling Stone si occupa della Pausini? Perché, come è già stato ampiamente detto, Rolling Stone si occupa di musica (tutta la musica) e di cultura di massa. La Pausini sono 25 anni che è tra le principali rappresentanti dell’Italia all’estero. E, personalmente, non ho trovato questo così disdicevole. Laura racconta ancora, a modo suo, la terra del sole, del mare e del bel canto. E lo fa da “pasionaria” della provincia. E non possiamo che dargliene merito. Ma veniamo, ahimè, alle note dolenti.
“Questo album è un invito a seguirmi in un nuovo percorso”, si legge nella cartella stampa. Eppure, la tredicesima fatica di Laura Pausini intitolata Fatti sentire, che ora analizzeremo traccia per traccia, è soltanto un timido tentativo di discostarsi da quanto fatto in precedenza. Infatti, su una tracklist di quattordici canzoni, ben nove sono classiche ballad pausiniane (con una dovuta eccezione).
Il disco si apre in modo tradizionale, ovvero con il singolo di lancio Non è detto, in assoluto il miglior pezzo del disco. La canzone è sempre la solita roba neomelodica, ma ha il pregio di discostarsi dal vizio di forma di questo genere trito e ritrito: non è iperarrangiata. È formata quasi esclusivamente da piano e voce. Per gli standard pausiniani è un incipit non disastroso: un giocare in sicurezza.
I drammi arrivano poi: la spagnoleggiante Nuevo, che andrà forte attorno ai fuocherelli nelle pinete dove si raduna la popolazione LGBT, è la prima delle tre canzoni estive presenti. L’idea di base è quella di fare della tropical, ossia un genere musicale che era molto di moda l’estate scorsa, oggi già di meno. Una volontà di essere alla moda, giovane, senza riuscirci del tutto (in questo senso, la Sabrina Salerno degli anni Ottanta era pura avanguardia). E’ un vorrei ma non posso di Passionfruit dal mixtape More Life dell’immenso Drake.
La soluzione è, più che una classica canzone della Pausini, un tipico pezzo italiano che parla d’amore, su cui poco c’è da aggiungere. Con E.STA.A.TE si ritorna alle ritmiche più puramente pop. E’ quasi imbarazzante quanto sembri uno spot di una nota bevanda estiva. Bisogna, anche, sottolineare quanto sia rivoluzionario creare una canzone dai ritmi estivi con un titolo che ammicca a quella specifica stagione. Premio alla coerenza sintattico-musicale. La traccia di per sé sembra una canzone da discoteca venuta fuori dall’Eurovision 1998. Probabile singolo estivo (appunto) e relativo videoclip con omosessuali che si baciano per consolidare la fidelizzazione di quello specifico fandom.
In Frasi a metà torna la classica Pausini che tutti conosciamo. Le percussioni sono in primo piano, e la voce viene usata secondo il solito canone, cioè con l’urlo sovrastante per dimostrare doti vocali. Il testo è un po’ ridondante: “Si muore in mezzo a una frase o di frasi a metà”.
Come nello stile di Non è detto, anche Le due finestre punta su un arrangiamento ridotto ai minimi termini, cercando una linea di coesione musicale, un fil rouge che guida e rassicura l’ascoltatore medio o il fan accanito. Scritto da Enrico Nigiotti è uno dei pezzi migliori dell’album: una piccola evoluzione su tutto il resto.
La prima midtempo è l’allegra Fantastico (Fai quello che sei). È un altro sforzo di smuovere il disco con una canzone vagamente ritmata. In questo caso, non si sa se voglia fare il verso alle più recenti produzioni indie pop (Tove Lo, Troye Sivan, Flume) o altro. Piuttosto indicativo di ciò è l’utilizzo di quel riverbero dubstep che si percepisce nel sottofondo. La Pausini continua ad essere nostalgica di una pseudo-dance anni Duemila, ma non è necessariamente una colpa. A differenza delle sonorità di Nuevo, queste sono attualmente molto di moda. Laura finalmente atterra nel 2018.
No river is wilder, unica traccia in inglese, è cantata con la solita pronuncia anglo-solarololese. È una ballata che cerca il confronto con l’assenza di Adele. Invece, sembra più che altro una b-side della chanteuse londinese. È giusto ricordare che le produzioni in inglese non hanno mai portato molta fortuna alla nostra compaesana: “From the inside” del 2002 fu un sonoro flop.
L’ultima cosa che ti devo, altra ballad, altro canone classico dell’Enciclopedia Pausini. Ci sono struggimenti, il “silenzio che mi dai”, lui che non ha “bisogno di me”. Ma il finale punta sull’empowerment: neanche lei ha più bisogno di lui. Geniale l’incipit che ricorda moltissimo l’epica Fiumi di parole dei Jalisse.
Prima delle due canzoni curate da Rik Simpson (aka Rikademus), produttore che si destreggia tra il mainstream di Mylo Xiloto dei Coldplay, l’hip hop di Jay-Z e il trip hop dei Portishead, “Un progetto di vita in comune” si presenta come un’altra midtempo. Nonostante l’altisonanza del produttore, questo è il classico filler neanche troppo necessario. Poteva essere scartata in fase di post-produzione o aggiunta come bonus track. Ne avrebbe sicuramente giovato all’economia di un album piuttosto lungo.
Ne Il caso è chiuso Laura Pausini continua la sua collaborazione con Simpson, ma questa volta si sfocia nel trash. Quindi la si può tenere buona come guilty pleasure. Il titolo è degno di “Forum”, nell’edizione narcotica condotta dalla Palombelli. La cantante romagnola non si ferma qui, perché infarcisce le liriche di riferimenti giuridici come “Non ti ho condannato mai”. È scandita da un grande uso di percussioni.
Zona d’ombra è, probabilmente, l’idea che Laura Pausini ha di Lana Del Rey. Questo, ovviamente, senza averne il talento cantautorale o la destrezza nei riferimenti pop. Come da titolo, vorrebbe far trasparire una qualche sorta di cupezza, ma il massimo che riesce ad ottenere è una blanda malinconia. Sono due cose molto diverse.
A svettare sulle altre è la penultima Francesca (Piccola Aliena). È utile spiegare nel dettaglio le motivazioni. La produzione è affidata a Nick Ingman, produttore che ha contribuito alla creazione di uno dei massimi capolavori della Storia della Musica, ossia Ok Computer dei Radiohead. Ritorna il mood scarno con l’utilizzo prevalente di piano e voce. Il testo, però, è molto personale e Laura Pausini sembra finalmente riuscire a sentire (e cioè interpretare) una canzone. Smussa, insomma, quello che sembra a prima vista in questo album il suo massimo difetto: non credere in quello che canta. Il brano è dedicato a una sua nipotina scomparsa a nemmeno 3 anni e i proventi andranno all’onlus “Bimbo Tu”. Se volete comprare un pezzo, optate per questo.
Il coraggio di andare, che contiene tra i versi anche il titolo dell’album, chiude il cerchio con una ennesima ballata pausiniana, un po’ più anonima del solito e d’impatto meno forte rispetto al calcio d’inizio. Il testo galleggia tra l’autoaffermazione (“Tu sei importante”) e il populismo (“Allacciarsi le scarpe”).
Insomma l’ennesima occasione persa per la Laura nazionale che dopo le vette di Resta in ascolto del 2004 sembra non avere più trovato la via giusta. Lì usciva da un amore travagliato e da una voglia di rivincere, qui invece si confronta con i 44 anni e una stabilità familiare. Sarà questo il vero problema?