Da un po’ di anni, il progetto chiamato Destroyer (l’improbabile pseudonimo dietro cui si nasconde il canadese Dan Bejar) è uno dei meglio seguiti, e più apprezzati, dalla critica musicale. Su Metacritic.com, uno dei più autorevoli siti che aggregano recensioni, Destroyer ha un average career score, il punteggio medio di carriera, pari a 82 su 100. Sufjan Stevens, i cui concerti non hanno mai problemi di affluenza di pubblico, ha un punteggio medio di 79. L’ultimo disco di Destroyer, Poison Season (2015) totalizza 86 su 100. Per farsi un’idea dei criteri secondo cui vengono assegnati i punteggi, l’ultimo disco dei celebratissimi Beach House, Thank Your Lucky Stars, si ferma a 80 punti.
È con questi dati in mente, quindi, che uno si presenta al Biko di Milano, ristretto ma accogliente spazio per concerti, per una delle rare apparizioni italiane di Destroyer (unica altra data è Bologna, il giorno prima). Una giustizia che trascenda i volatili gusti umani vorrebbe che l’inviato di Rolling trovasse il suddetto locale impallato di gente. Sold out. Perché sarebbe giusto così. Perché Destroyer è un grande artista, e i suoi ultimi dischi, dopo vent’anni di carriera, sono probabilmente i suoi migliori. E poi perché è un bell’uomo: c’è gente che va ai concerti anche solo per questa ragione, ma non c’è niente di male.
E invece, no. L’inviato di Rolling non trova che un centinaio di persone. Sarebbe interessante aprire qui una parantesi sul concetto (esclusivamente milanese? italiano?) di andare a un concerto solo “perché fa figo”, qualità che evidentemente non riguarda questa data di Destroyer. Ma ve lo risparmiamo.
C’è da dire che la band che Dan Bejar si porta dietro nel tour è composta da 8 elementi (ci sono anche una tromba e un sassofono), piuttosto strettini sul palco, e questo non fa che amplificare l’effetto della sala mezza vuota. Come se non bastasse, il povero Dan è malconcio, ha l’influenza, si vocifera di una sua eroica performance la sera prima a Bologna con tanto di sciarpa e cappello e termometro in bocca, tipo personaggio della Disney che è caduto dentro un buco nel ghiaccio e si è preso un gran raffreddore. E in effetti tra una canzone e l’altra Bejar si accuccia per prendere qualche sorso d’acqua, e tossire in libertà.
Ma al netto dei malanni e della colpevole disattenzione milanese, è un grande concerto. La scaletta prevede soprattutto canzoni dell’ultimo disco e di quello precedente, Kaputt, a oggi il maggiore successo commerciale di Destroyer. È un piacere trovare quelle canzoni, un po’ fredde su disco, rivisitate in chiave più rock: viene così fuori l’anima springsteeniana che pervade Poison Season, uno degli inevitabili canoni con cui deve confrontarsi chi vuole creare un’epica americana. Dal vivo le differenze tra gli ultimi album si appianano, e questo fa emergere la continuità di scrittura di un artista come Bejar, che altrimenti rischia sempre di apparire un po’ sfuggente. E la band fa di tutto per compensare con l’energia la difficile condizione odierna del suo leader – a volte troppo, forse: la voce di Bejar, così sottile e nasale, quasi beffarda, perde molto della sua espressività. Del resto, è già molto che sia riuscito a tenere sotto controllo gli accessi di tosse.
Lo show era stato aperto in modo originale da una connazionale di Bejar, Jennifer Castle: armata di chitarra, la cantautrice country-folk – una sorta di ibrido tra Loretta Lynn e Jason Molina – ha pubblicato due album sotto lo pseudonimo Castlemusic, e due con il suo vero nome, tra cui l’ultimo, Pink City (2014), arrangiato da Owen Pallett e finalista al Polaris Music Prize 2015. Anche lei ha contribuito alla qualità di questo concerto, snobbato ingiustamente dal pubblico di Milano.