Se ascoltassimo Let it Be senza sapere nulla della storia che ha dietro, lo troveremmo un disco rilassato e affettuoso, il ritorno dei Beatles ad una visione semplice del rock&roll dopo le architetture complesse e i fuochi d’artificio stilistici dei dischi precedenti. Doveva essere proprio quello: un modo per riportare i Beatles alle origini, quando erano un gruppo beat capace di suonare sul palco per ore senza versare una goccia di sudore. Invece è il progetto che li distrugge definitivamente, e l’ultimo disco della loro carriera.
Il 2 gennaio del 1969 i Beatles stanno ancora brillando della gloria del White Album quando ricominciano a lavorare insieme. Vogliono allontanarsi dal suono ultrapulito di Abbey Road e scelgono di lavorare nell’ambiente più freddo dei Twickenham Film Studios di Londra. L’idea, ha spiegato Paul McCartney è: «Far vedere i Beatles che improvvisano, provano e finalizzano delle canzoni e poi le suonano dal vivo da qualche parte. Volevamo mostrare tutte le fasi del nostro processo creativo».
Il risultato sono il film di concerto e un documentario di un’ora, e sono tutti e due un disastro. Nel 1970 John Lennon dice al direttore di Rolling Stone Jann S.Wenner: «Avevo Yoko e non me ne fregava più niente di niente. Ed ero anche sempre fatto, di eroina e altre cose». McCartney sta cercando di tenere insieme la band tirando tutti dalla propria parte, ma i membri del gruppo sono stanchi di sentirsi dire quello che devono suonare. George Harrison è frustrato dal fatto che sia Lennon che McCartney non mostrano particolare interesse verso i suoi pezzi (alcuni dei quali usciranno sul suo disco solista del 1970, All Things Must Pass). Ma la cosa peggiore è che le canzoni che stanno scrivendo non funzionano. Le telecamere di Michael Lindsay-Hogg sono sempre accese, e i Beatles non riescono a mettere insieme niente di più di qualche abbozzo e qualche session frammentaria.
Il 10 gennaio George litiga con John e lascia la band: «Ci vediamo nei club» dice andandosene. La band è seriamente preoccupata che non torni più, Lennon suggerisce addirittura di sostituirlo con il suo amico Eric Clapton. Il 15 gennaio Harrison decide di tornare, a patto che la band rinunci all’idea di fare il concerto e il film. Raggiungono un compromesso: faranno solo il disco e il documentario. In fondo, pensano, hanno a disposizione lo studio con macchinari che registrano fino a 72 tracce che uno dei personaggi che gli girano intorno, il misterioso “Magic” Alex Mardas, nominato capo della Apple Electronics, ha costruito per loro nel sotterraneo della Apple al numero 3 di Saville Row. Sfortunatamente qualche giorno dopo scoprono che il favoloso studio è inutilizzabile. Non è altro che una stanza piena di apparecchi elettronici che non fanno niente.
Si fanno prestare un paio di registratori a quattro tracce dalla EMI (alla fine del mese lo studio finto di Magic Alex viene smantellato) e finalmente il 22 gennaio si mettono al lavoro sul serio. Harrison chiede che sia presente il tastierista Billy Preston, che ha già collaborato con i Beatles, cosa che contribuisce molto ad allentare la tensione in studio: «L’atmosfera è cambiata di colpo, è diventata positiva al cento per cento» ha detto Harrison, «La presenza di un quinto musicista ha sciolto il ghiaccio che si era creato tra noi».
Per una settimana fanno solo jam session piuttosto disordinate, con il tecnico del suono Glyn Johns che più o meno ricopre il ruolo del produttore dato che fino a quel momento non c’è nessuno che si occupi di tenere sotto controllo la situazione e dialogare con la band. Poi ad un certo punto le canzoni cominciano a prendere forma. La chimica naturale dei Beatles è ancora intatta, ed è lì quando serve: «Quando ci sedevamo e cominciavamo a suonare, suonavamo bene. Abbiamo evitato di stare insieme senza lavorare». La band recupera qualche pezzo del vecchio repertorio come Love Me Do o One After 909, prova qualche cover e scrive dei pezzi nuovi. C’è anche una collaborazione autentica tra Lennon e McCartney: un piccolo frammento di canzone di Lennon intitolato Everybody Had a Hard Year, che John ha cantato in documentario austriaco un mese prima, diventa perfetto per riempire uno spazio rimasto vuoto in I’ve Got a Feeling di McCartney.
Il 28 gennaio Get Back di McCartney e Don’t Let Me Down di Lennon sono pronte per essere registrate e pubblicate come primo singolo (firmato “The Beatles with Billy Preston”, per la gioia del tastierista). Il singolo viene lanciato così: «I Beatles secondo natura, dal vivo come non mai in un’epoca sempre più elettronica. Qui non c’è niente di quella roba». È nel corso di questa settimana che ai Beatles viene in mente di fare il concerto che avevano in programma nel modo più semplice possibile, sul tetto del palazzo della Apple e senza dire niente a nessuno. Sull’onda dell’entusiasmo lo fanno davvero, il 30 gennaio all’ora di pranzo. Suonano per 42 minuti, ripresi dalle telecamere di Lindsay-Hogg, finchè la polizia non interviene e li fa smettere. Dal concerto vengono estratte le versioni di I’ve Got a Feeling, One After 909 e Dig a Pony. Il giorno dopo i Beatles sistemano dei pezzi di McCartney che non erano adatti per essere eseguiti dal vivo, The Long and Winding Road, Let It Be e Two of Us e chiudono il discorso con questo progetto, che al momento si intitola Get Back. Quello che rimane è una montagna di nastri, la testimonianza dei giorni più bui dei Beatles. Glyn Johns ha il compito di ascoltarli, selezionarli e trasformarli in un disco. Il 30 aprile Harrison aggiunge un assolo di chitarra a Let It Be e alla fine di maggio Johns ha pronta la sequenza finale del nuovo album dei Beatles, Get Back.
Get Back contiene solo un pezzo dal concerto sul tetto della Apple e qualche canzone che non c’è sul Let It Be che conosciamo, tra cui un medley rock&roll, una cover di Save the Last Dance for Me e Teddy Boy di McCartney. I Beatles posano per la foto di copertina nello stesso posto (e con lo stesso fotografo) in cui hanno scattato quella del loro primo album Please Please Me (sarà usata come copertina del Blue Album, una raccolta di hit pubblicata nel 1973).
Quello che prima era un caos ingestibile, adesso è diventato un album. Ma la band non è soddisfatta della scaletta fatta da Glyn Johns, e accantona il progetto per tutta l’estate per concentrarsi sulla registrazione di Abbey Road. Ad ottobre, quando Lindsay-Hogg finisce di montare il film, John Lennon ha già annunciato alla band che se ne vuole andare e la prima versione di Get Back sta già circolando sotto forma di bootleg. A dicembre la band chiede a Johns di rifare la scaletta scartando Teddy Boy (che finisce sul primo album di McCartney) e aggiungendo tre canzoni dal film, Across the Universe di John Lennon, registrata nel febbraio del 1968, I Me Mine che non è mai stata finita e viene registrata da Harrison, McCartney e Ringo Starr il 3 gennaio del 1970 (mentre Lennon è in vacanza in Danimarca) e Let It Be a cui la band aggiunge qualche sovraincisione il 4 gennaio.
Avevo Yoko e non me ne fregava più niente di niente. Ed ero anche sempre fatto, di eroina e altre cose
Anche la nuova sequenza fatta da Johns non soddisfa la band, che abbandona per la seconda volta il progetto. La svolta arriva quando Lennon e Harrison, impressionati dal lavoro di Phil Spector su Instant Karma, il nuovo singolo della Plastic Ono Band, chiedono a Spector se vuole occuparsi della colonna sonora del film di Lindsay-Hogg, che ora ha preso il titolo definitivo di Let It Be (il pezzo omonimo è uscito come singolo l’11 marzo). Phil Spector accetta e mette il suo marchio: taglia le jam session confuse in due frammenti brevi ma coerenti, Dig It e Maggie Mae, riedita I Me Mine dandogli una durata più adeguata, cancella i cori di Dig a Pony, remixa Let It Be e sparge ovunque i suoi tipici arrangiamenti orchestrali.
McCartney va su tutte le furie quando sente cosa ha fatto alle sue canzoni, soprattutto The Long and Winding Road («Non lo fare mai più»» scrive al capo della Apple, Allen Klein) e rimane arrabbiato per decenni, almeno fino a quando nel 2003 non esce Let It Be… Naked, ovvero l’album con il mix e la sequenza dei pezzi da lui preferita. Lennon invece è ottimista, come racconta a Rolling Stone nel 1970: «Spector ha lavorato come un matto, gli abbiamo dato in mano una pila di merda registrata male e lui è riuscito a tirarci fuori qualcosa».
La versione di Spector di Let it Be è una splendida bugia, una maschera sorridente dipinta sopra ad un’esperienza deprimente. Un disco vero, suonato dal vivo e reso gradevole da raffinati aggiustamenti, qualche battuta intelligente (Lennon che alla fine di Get Back dice: «Speriamo di aver passato l’audizione») e una sequenza di pezzi suonati in modo rilassato ma sempre preciso dalla band e cuciti insieme da Spector con l’intenzione di far apparire i Beatles solo un po’ più vecchi e più profondi dei simpatici ragazzi che avevano fatto innamorare il mondo ai tempi di A Hard Day’s Night. È un album con un valore artistico superiore a quello che avrebbe avuto una testimonianza più veritiera del processo creativo della band in quel momento, l’unica cosa è che non si può dire che sia pienamente un disco dei Beatles.
Il 17 aprile McCartney pubblica il suo primo disco solista (contro il parere degli altri). Un mese dopo Let It Be va al n.1 in classifica in tutto il mondo e The Long and Winding Road vola al primo posto in America, come hanno già fatto Get Back e Let It Be. Il 20 maggio il film di Lindsay-Hogg, Let It Be esce nei cinema in Inghilterra. Nessuno dei Beatles è presente alla prima.