Riflessioni sull’anonimato. Il Sonar è un laboratorio di idee, un festival di “musica avanzata” intesa come cultura e arte contemporanea e quindi muove le idee oltre alle persone sotto al muro di casse. Sempre più grande come numero di presenze, sempre più fondamentale nel calendario della musica europea ma anche sempre più ragionato, strutturato intorno a concetti e stili, omogeneo nel presentare le variazioni più interessanti del pensiero digitale. Il Sonar ha uno sguardo puntato sul mondo, quello ironico e provocatorio dei suoi artisti-creatori Sergio Caballero e Enric Palau (il terzo è il giornalista Ricard Robles) e va in cerca di sperimentazione, lanciando ogni anno delle idee.
L’edizione dei 25 anni è la celebrazione di una storia iniziata nel 1994 nel cortile del Museo di Arte Contemporanea CCCB con Sven Vath e Laurent Garnier che non ha niente di nostalgico. L’uomo simbolo del Sonar Laurent Garnier ha il suo spazio con lo show “Laurent plays Garnier”
in chiusura del primo giorno del Sonar de Dia e un set di 4 ore che si preannuncia devastante in chiusura della notte del sabato ma il resto è innovazione, avanguardia, immaginazione, anche con qualche rischio.
La cosa che rende interessante il Sonar è la pura curiosità che lo anima. Non gioca mai al sicuro nel creare la line-up del suo universo sonoro
e per questo nessuno sa mai davvero cosa aspettarsi, e finisce per divertirsi sempre. La riflessione sull’anonimato è un esempio, una scommessa vinta.
«Abbiamo portato Liberato» dicono gli organizzatori del Sonar. Per loro è un ponte tra le radici della canzone melodica e i suoni digitali, la celebrazione della capacità camaleontica dell’elettronica di infilarsi in qualunque stile musicale e angolo del mondo e trasformare le radici in avanguardia. È quello che il Sonar ha cercato in tutta la seconda giornata con l’immersione nella house musica africana di nuova generazione nata a Durban in Sudafrica, un genere esplosivo chiamato Gqom (in lingua Zulu è una parola che indica il suono delle percussioni) e portato sul palco del Sonar e nelle playlist di tutto il mondo dal cercatore d’oro Diplo con il suono tribale di Kampire dall’Uganda, i Distruction Boyz (che hanno lanciato il genere nel 2017 con l’album Gqom is Future) e la festa pazzesca dell’inglese di origine nigeriana Mr.Eazi.
Ma Liberato è l’anonimato, la sintesi di curiosità e ricerca. Il volto coperto nella musica scatena qualcosa da sempre: dagli Slipknot ai Daft Punk, tutti vogliono sapere cosa c’è dietro la maschera, anche se la maschera in fondo serve solo a mettere in primo piano la musica, ad affermare che è l’unica cosa che conta. Dietro a volte ci sono solo tonnellate di ansia da palcoscenico (come nei Daft Punk) un’arma da guerra contro il mondo (gli Slipknot), il bisogno di puntare tutto sull’esagerazione (i Kiss).
Liberato invece mette la maschera per essere uguale agli altri e per dire che non c’è niente di male a cantare delle melodie tutti insieme, anche se quelle melodie sono piene di riferimenti a luoghi e persone che conoscono solo quelli che condividono la sua storia, cantate nella loro lingua.
Sul palco ci sono tre ragazzi uguali in tutto, altezza corporatura e vestiti, una divisa urban (felpa, bomber, Converse, jeans) usata come schermo protettivo e rivendicazione. Liberato è Napoli nella voce nei testi e nel modo di interpretare la musica, ma è qualunque strada, piazza, parco o club delle città italiane, è il romanticismo puro che va da Pino Daniele a Gino Paoli. Nel buio della Sonar Hall (prima di Rosalia, un ponte interessante tra due culture del Sud) Liberato è una malinconia mediterranea che avvolge, è la semplicità delle canzoni d’amore italiane rieditate per ogni tipo di pubblico da una voce molto bella, brillante e struggente al punto giusto. Se è lui a cantare davvero, è anche sorprendente pensare come riesca a farlo con la bocca e il naso coperti dalla bandana, anche sulle note lunghe e le strofe alte.
Un progetto “bien perfilado” come dicono in Spagna, costruito bene, con un’identità precisa. Quando c’è un pensiero dietro, le cose al Sonar funzionano. E la dimostrazione arriva in quello spazio misterioso del festival che sta tra il giorno e la notte, quando i concerti e la musica suonata si dissolvono nei Dj set, con il progetto più intelligente del nostro tempo, i Gorillaz. In questa riflessione sull’anonimato, la band a cartoni animati creata da Damon Albarn con Jamie Hewlett ci mette la faccia e come in un ultimo scherzo costruisce il suo live sull’impatto fisico e viscerale del suono.
Damon Albarn con una felpa gialla si fa vedere fino all’ultima fila e si butta nelle prime due con il suo microfono Shure, rimane attaccato al cavo vintage, sospeso sulla gente, trasportato da sé stesso. Sembra non essere mai stato così felice e proprio nella band che non rivendica nessuna appartenenza (rispetto alla battaglia di stile dei Blur) ha trovato la propria dimensione, e la voglia di stare con il pubblico.
Il suono dei Gorillaz è un impulso funk-elettronico invasivo, riempie lo spazio e muove fisicamente le persone. La band (con il maestoso bassista Seye Adekan e il monumentale Gabriel Wallace alla batteria) ha una base ritmica potentissima e morbida allo stesso tempo, gravità e ritmo per sostenere le melodie di Damon, con la sua voce sballata e graffiante che grida la sua perplessità sull’assurdità del mondo: are we the last living souls? Quando arriva On Melancholy Hill ci si rende conto che i Gorillaz sono un sogno elettronico perfetto, pura fantasia incastrata dentro melodie purissime. Damon Albarn se la ride perché è pieno di soluzioni. Può perdersi nei suoni minimali della sua tastierina, galleggiare sul ritornello infinito di Cint Eastwood o tornare con la voce alla carica punk-rock dei primi Blur perché dietro a lui c’è un’orchestra digitale che può fare tutto, anche trasformarsi senza alcuno sforzo da ologramma ad headliner.
A rendere tutto più vero c’è un favoloso coro black di sei voci soul che funziona come elemento fisico definitivo: quando serve entra a creare emozione e si prende tutto lo spazio. Sono questi colpi di genio e questa visione a fare dei Gorillaz i Clash del nostro tempo. Mettono insieme tutti i linguaggi musicali in un suono metropolitano che pesca sempre il meglio, mischiano i generi e attraversano le porte tra hip-hop, elettronica e pop con la “coolness” eterna di Damon, e buttano dentro una sorpresa dietro l’altra, dai De La Soul veri (in Momentz dall’ultimo album Humanz e Superfast Jellyfish) a Snoop Dogg campionato, dalla potenza scatenata della anglo-nigeriana Little Simz in Garage Palace fino all’omaggio a Bobby Womack in Stylo.
Damon Albarn è l’artista del passato che ha capito il presente, vive il palco come se fosse sempre perso in un suo personalissimo viaggio lisergico ed è meraviglioso quando si piazza al centro come un glorioso sopravvissuto Mod, immobile e stralunato a suonare la sua chitarra acustica, mentre intorno a lui i De La Soul fanno un casino pazzesco e fanno saltare tutto il Sonar con Feel Good Inc. O quando fa partire Souk Ink, un pezzo dal prossimo album dei Gorillaz (le altre sono Tramp, Magic City e The Scorcererz, presentate in anteprima in questo tour) con la sua pianola da nerd e poi lo chiude facendo spegnere tutto intorno a quattro note semplici, accompagnate da un sorriso.
Il sogno elettronico dei Gorillaz finisce e lui rimane lì, con il suo sguardo ironico sul mondo, senza altra maschera addosso se non quella della sua umanità bizzarra, cerebrale, infinitamente curiosa, distorta. Che poi è anche un po’ la nostra.