Le vicende biografiche di un musicista diventano dettagli volatili quando il talento supera l’aspettativa. Richie Kotzen ha una storia artistica particolarmente ricca e avventurosa, ma la sua appassionata relazione con la chitarra riesce ad oscurare anche il passato di bambino prodigio, la militanza nei Poison a soli 19 anni, l’esperienza con i Mr. Big ed i Vertù, le collaborazioni con leggende del jazz come Stanley Clarke e Lenny White. Un vero virtuoso, uno a cui la Fender ha dedicato due modelli signature di chitarre, uno che ha accompagnato i Rolling Stones per tutto il tour in Giappone, che ha pubblicato 21 dischi in 20 anni di carriera musicale, e che lunedì sera è riuscito a trasformare il Circolo Magnolia in un locale fumoso di Downtown L.A.. E poco importa se in un paio di occasioni ha dimenticato il testo delle canzoni (riconquistando subito il pubblico con un sorriso sornione ed un “Meglio così, meglio non dire nulla”), perché davanti al palco erano tutti ipnotizzati dal suo talento nell’estrarre note perfette da quella chitarra.
Noi lo abbiamo incontrato poco prima del concerto e abbiamo scambiato due chiacchiere con lui.
Richie, è vero che eri un bambino prodigio?
Naaa, non sono mai stato un bambino prodigio, semplicemente ho cominciato presto a suonare.
Quanto presto?
A 5 anni ho fatto il primo tour con il pianoforte.
Ok, quindi eri un bambino prodigio. E come sei passato dalla musica classica all’hard rock?
A 7 anni ho capito che il pianoforte con faceva per me: mi annoiava, non mi piacevano le lezioni, ero svogliato. Nella chitarra ho visto un mondo che si apriva davanti ai miei occhi.
Ha qualcosa a che fare con la tua passione per i Kiss?
Assolutamente sì. In quel periodo i Kiss erano davvero enormi, le loro canzoni si sentivano ovunque. Io ero un bambino e mi vestivo come Gene Simmons, con i pantaloni di papà e gli stivali da discoteca di mamma.
Poi è successo anche che avete lavorato insieme, tu e Gene Simmons.
Qualche anno fa mi squilla il telefono e questa vociona dice: “Ciao Richie, qui è lo zio Gene”. Era proprio lui. È stato cliente del mio studio, Headroom-Inc, dove ha registrato un album che si chiama Asshole. Abbiamo anche suonato insieme qualche volta, credo di avere persino suonato la batteria in un suo pezzo, ma non sono affidabile, ho poca memoria.
Parliamo dell’ultimo album, Salting Earth: si dice che per realizzarlo tu abbia dovuto superare una sorta di blocco creativo durato due anni. È vero?
Assolutamente no. Io non credo affatto nel cosiddetto “blocco dello scrittore”, anzi, credo che il processo creativo sia qualcosa di estremamente spontaneo e non vada mai forzato. Quelli che si mettono in testa di scrivere per forza delle canzoni in quel momento preciso, anche se non sono ispirati, allora sì che subiscono un blocco creativo, ma io compongo solo quando ho qualcosa da dire.
Se si vive di un lavoro creativo, però, si deve contare su una certa costanza di idee, non credi?
Diciamo che in ogni cosa ci sono input e output. Se mi concentro esclusivamente sugli output sono sotto pressione e destinato al fallimento, perché per avere qualcosa in uscita, un prodotto, una canzone, bisogna avere qualcosa in entrata, un’idea, un’ispirazione. Non esiste output senza input.
Quindi per Salting Earth eri pieno di idee ed energie?
Credo proprio di sì. Dentro al disco ci sono canzoni nuove, ma anche brani vecchi che erano rimasti nella mia memoria per tantissimo tempo e che era il momento di pubblicare.
Hai mai pensato di fare l’attore? Magari in una serie TV come tanti tuoi colleghi.
Sì, quando avevo 20 anni prendevo lezioni di recitazione. Una volta ottenni una piccolissima parte nel film Why do fools fall in love con Halle Berry: quello è stato il mio “momento Hollywood”. Certo che mi piacerebbe recitare in un film o in una serie TV, e penso anche che sarei un bravo attore; quel che non mi piacerebbe è partecipare a mille casting, seduto in una stanza con altri 15 tizi uguali a me.
Nel tuo studio a Los Angeles produci soltanto i tuoi album o anche quelli di altri?
Un tempo lo facevo, ora mi limito al mio lavoro. Produrre è un mestiere interessante, ma io non sono fatto per stare seduto in uno studio, potrei al massimo contribuire alla parte creativa della produzione, alla scrittura delle canzoni.
C’è qualche musicista o band che ti piace particolarmente?
C’è un sacco di ottima musica in giro, soprattutto a Los Angeles. Recentemente ho ascoltato un paio di canzoni del nuovo album di Lawrence Rothman: lo trovo veramente interessante e penso che avrà un successo enorme. Non è vero che non c’è buona musica, bisogna soltanto cercare più a fondo.
Progetti per il futuro?
Non sono tipo da progetti, faccio il mio, faccio Richie Kotzen, basta così.