Prima dei numeri impressionanti degli ultimi anni, dei passaggi in radio, delle frasi fissate nella memoria collettiva e del consolidamento (se vogliamo) mainstream della costola itpop, qualcuno sicuramente ricorderà che l’indie italiano era una roba da sfigati. Una nicchia alternative neanche tanto ben vista da fuori. Eppure, nonostante ciò, la qualità non mancava affatto, con vette tutt’ora ineguagliate.
Riscopriamo allora quattro album un po’ impolverati di alcune fra le band che hanno segnato quell’epoca e che, per un motivo o per un altro, sono sparite un attimo prima della svolta. Quattro dischi bellissimi, quindi, di altrettanti gruppi che ci mancano proprio tanto e che vorremmo fossero ancora qui, per godersi tutto questo.
“Bachelite” di Offlaga Disco Pax (2008)
Basterebbe dire che contiene Venti minuti – una delle canzoni italiane più toccanti di sempre – per farne un passaggio obbligato, ma proviamo a procede con calma. Gli Offlaga Disco Pax avevano in Max Collini un declamatore atipico, mentre in Daniele Carretti e nel compianto Enrico Fontanelli due tessitori di trame elettroniche che definire sottofondo sarebbe offensivo. La loro miscela recitata di spoken – new wave sguazzava in un immaginario solido e ampissimo: l’epica (post-)rivoluzionaria, l’Emilia, la provincia, la disillusione dei trent’anni, le battaglie sociali e quelle – volutamente patetiche – private.
Il secondo Bachelite ha in sé il baricentro esatto di quanto sopra, oltre alla giusta dose di pathos nello storytelling. Su tutte, la conclusiva Venti minuti (eccoci eh) è talmente incisiva da portare alle lacrime: un testamento a cuore aperto, il racconto nudo del rapporto fra Collini e il padre defunto, con un finale da brividi che non sto qui a spoilerare per rispetto dell’arte. Chiaro: prima c’è un disco enorme, che alterna la nobiltà di Sensibile alla miseria di Dove ho messo la Golf?, l’autoironia di Lungimiranza ai ricordi che capisci solo vent’anni dopo di Cioccolato I.A.C.P.. Ma poi, alla fine, quando arriva Venti minuti realizzi davvero il vuoto lasciato degli Offlaga.
“Che succede quando uno muore” di Offlaga Disco Pax (2003)
Qui siamo alla preistoria: i Babalot sono probabilmente la band che ha gettato il seme della moderna ricapitalizzazione del cantautorato italiano – quella dei vari Dente, Brunori, Brondi prima e di Calcutta poi. Nel loro esordio Che succede quando uno muore c’era, in forma neanche tanto embrionale, tutto ciò che più in là avrebbe fatto scuola: indie-pop da chitarra, voce e fiammate elettriche, pezzi sghembi ma robusti, spigolature surreali e attitudine lo-fi da cameretta; ma anche una maturità compositiva impressionante e la capacità di riallacciarsi alla tradizione (nel caso: Battisti e Rino Gaetano) con una serie di incisi memorabili e dei testi disincantati, oltre a un piglio melodico catchy e artigianale.
Talmente raro da non essere neanche su Spotify, l’album tocca il cielo con Schifo, che è una perla di cantautorato nevrotico, appiccicoso e mai banale che potrebbe trovarsi benissimo in un album di Calcutta. All’epoca i Babalot erano troppo avanti; oggi magari farebbero i palazzetti.
“A sangue freddo” di Il Teatro degli Orrori (2009)
Piero Ciampi, Battiato e De André per i testi d’autore di Pierpaolo Capovilla, Jesus Lizard per le sfuriate (quasi) noise-rock di Giulio Ragno Favero, Gionata Mirai e Francesco Valente. Il bello di A sangue freddo – e del primo Teatro in generale – è che non stiamo tirando in ballo questi riferimenti per pigrizia, ma perché al suo interno ci sono davvero tutti, infiammati dalla personalità strabordante di una band in stato di grazia, là dove le liriche dell’ex frontman degli One Dimensional Man si esaltano con l’imponente muro sonoro alzato dai soci. Schierato (A sangue freddo), amaro (Due), audace (Padre nostro, forse la più bella, sicuramente la più intensa), malinconico (È colpa mia) e sempre retto da un’ispirazione senza eguali, è un disco che racconta con poetica sensibilità una società sull’orlo della schizofrenia, fra apprensioni affettive e disastri sociali.
Intellettuale e complesso, citazionistico, ma anche limpido ed emotivo. Più compatto nei suoni del precedente Dell’impero delle tenebre, anni luce distante della diaspora dei due album successivi. Probabilmente l’ultimo, grande ruggito di alternative rock italiano. Cazzo quanto manca, il Teatro…
“S” di Drink to Me (2012)
Sì ok, ora c’è Cosmo, che all’epoca era il leader dei Drink to Me e che grazie a quell’esperienza ha praticamente formato il suo stile solista, ma la band di Ivrea resta un pezzo di storia della musica elettronica italiana oggi colpevolmente trascurato. Una gavetta infinita, per una ricerca sonora altrettanto lunga e agognata che, proprio quando sembrava senza sbocchi, con S trova invece la breccia verso la consacrazione.
Fra strati su strati (su strati, su strati) di sintetizzatori, morbidi clap e una sezione ritmica squadrata e forsennata, il quartetto innesta come mai prima sfumature da dance-hall, melodia pop, panorami suggestivi e sperimentazioni. Vuoi per il cantato in inglese, vuoi soprattutto per l’ostinata ricerca sonora della proposta, tutt’ora nell’indie italiano si fatica a trovare un disco che vanti un taglio tanto internazionale. Quando senti, per esempio, Henry Miller e Future days fatichi a capire da quale diamine di fessura siano passati i Drink to Me per arrivare dalla loro galassia fino a noi. Chissà che non si possa riassistere, al contrario di quanto dichiarato, a un tour come quello (miracolo!) dello scorso anno. Pensateci ragazzi, noi siamo qui.