L’omaggio di Trent Reznor ai Cure: «Musica fatta su misura per chi sogna di fuggire» | Rolling Stone Italia
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L’omaggio di Trent Reznor ai Cure: «Musica fatta su misura per chi sogna di fuggire»



Il frontman dei Nine Inch Nails ha annunciato l’ingresso della band di Robert Smith nella Rock and Roll Hall of Fame: «Hanno creato un suono, un look, un’atmosfera e un'estetica. Un mondo nuovo e autonomo»

L’omaggio di Trent Reznor ai Cure: «Musica fatta su misura per chi sogna di fuggire»

Il 29 marzo i Cure sono entrati nella Rock and Roll Hall of Fame. Come succede ogni anno, tutte le band premiate vengono presentate da un altro musicista. Spesso si tratta di artisti con cui hanno condiviso il palco, oppure con una sensibilità artistica simile. Quest’anno David Byrne ha introdotto i Radiohead, Simon Le Bon i Roxy Music e Brian May i Def Leppard. Nel caso dei Cure, l’annuncio è toccato a Trent Reznor dei Nine Inch Nails, che con un discorso appassionato ha raccontato quanto la musica di Robert Smith sia stata importante per la sua vita, per la sua band e per tutto il mondo del rock alternativo. Ecco cosa ha detto:

Siamo qui questa sera per onorare e omaggiare una delle band più riconoscibili e musicalmente uniche del XX secolo. Questa sera, i Cure entrano nella Rock & Roll Hall of Fame.

Sono cresciuto in una piccola città americana. Mercer, Pennsylvania, per essere precisi, dove non c’era nient’altro da guardare se non campi di grano. Era un’epoca primitiva, ben prima che il miracolo di internet arrivasse a svalutare la nostra meravigliosa forma d’arte. Prima di MTV, quando non avevamo niente da ascoltare in radio e niente da fare se non sognare di scappare.

Quando sono andato via da casa, sapevo che era il momento per una metropoli – nel mio caso la grande città di Cleveland. Cambiò tutto. Era la metà degli anni ’80, e il solo fatto di poter ascoltare la radio del college mi riempiva la testa di possibilità infinite. Era il mio battesimo nel mondo della musica alternativa e indipendente – i suoni che hanno ispirato quelli che un giorno sarebbero diventati i Nine Inch Nails.

Uno degli aspetti più importanti di quest’ondata di nuova musica fu entrare per la prima volta in contatto con i Cure. La band mi colpì subito profondamente. Il primo album che ascoltai fu Head on the Door, e non avevo mai sentito nulla del genere. Molta dell’oscurità che sentivo nella testa era improvvisamente nelle casse dello stereo. Fu sconvolgente. Sembrava che avessero scritto quella musica solo per me. Avevo passato tutta la vita sentendomi fuori posto, un po’ come mi sento adesso. Ascoltando quell’album, ero connesso col mondo e non mi sentivo più solo. E credo che questa sia una delle cose uniche e speciali del potere della musica.

Non era solo il suono, o le parole o la produzione. Tutta quella musica era presentata dallo strumento più squisito che ci sia, la voce di Robert Smith. Quella voce, capace di interpretare un ventaglio enorme di emozioni, dalla rabbia al dolore, dalla disperazione alla bellezza, fino alla fragilità e alla gioia. So che può sembrare ingenuo, ma prima di ascoltare The Head on the Door non pensavo si potesse scrivere di idee così profonde e complesse e farne canzoni di successo, canzoni che finivano in radio e sfidavano il sistema dall’interno.

Comunque, ho ascoltato quel disco allo sfinimento, fino a consumare i solchi del vinile, poi ho recuperato il resto della discografia. Ad aspettarmi c’era un catalogo ricco e importante.

Il gruppo che conosciamo come Cure si formò nel 1976 a Crawley, un’altra cittadina di provincia dove tutti gli abitanti sognano di fuggire. Erano quattro ragazzi immaginari: Robert Smith, Lol Tolhurst, Michael Dempsey, e Pearl Thompson, eccitati sia dall’esplosione del punk nella lontana Londra che dal rock psichedelico americano con cui erano cresciuti.

Dopo qualche cambio di lineup, e dopo aver scritto una serie di classici del post-punk e della new wave, negli anni ’80 la band diventerà uno di quei gruppi capaci di definire la musica e lo stile di un intero decennio. Il cantante, chitarrista e autore Robert Smith, il bassista Simon Gallup e il batterista Lol Tolhurst ci hanno regalato un trio di album immortali – Seventeen Seconds, Faith e Pornography – che hanno contribuito a quello che conosciamo come rock alternativo.

Poi, quando tutti erano pronti ad approfittare del suono che i Cure avevano portato nel mondo, la band aveva già intrapreso un nuovo cammino. Robert Smith voleva mostrare al mondo che poteva scrivere molto più che musica monocromatica. Registrò una serie di canzoni che diventarono hit in tutto il pianeta e che ancora oggi sono dei classici. I 13 album che hanno registrato nei loro 40 anni di carriera sono dimostrano la loro forza e immaginazione artistica.

Nonostante suonassero musica impegnativa che trattava gli argomenti più complessi, il loro impatto è stato gigantesco. Hanno venduto non so quanti cazzo di milioni di dischi e sono diventati una pietra miliare di post-punk, new wave, goth, alternative, shoegaze e post-rock. Negli ultimi quattro decenni sono stati di moda e poi fuori moda così tante volte da trascendere la moda stessa. Oggi, nel 2019, ci si vanta di ascoltarli. Ma non è sempre stato così. La loro determinazione a superare tutti i limiti artistici e sonori, scrivendo allo stesso tempo musica memorabile, non è sempre stata premiata dalle luccicanti recensioni della stampa. Ma non hanno mai deluso la loro fanbase appasionata, intelligente e fedele, e che ha sempre saputo la verità: i Cure sono una delle band rock più uniche, intelligenti ed eccellenti che il mondo abbia mai conosciuto.

Comprensibilmente, la maggior parte dei musicisti tende a differire dall’immagine pubblica che costruiscono minuziosamente nel corso del tempo. Per quanto ne so, Robert Smith è una vera rarità – è al 100% un autentico tipo alla Robert Smith che vive un’autentica vita alla Robert Smith. È riuscito a inventare un mondo completamente autonomo. Un suono, un look, un’atmosfera, un’estetica che i fan possono visitare, in cui si possono immergere tutte le volte che lo desiderano. È un mondo fatto su misura per chiunque sogni di fuggire.

A questo punto del mio discorso, devo fare una confessione. Credo che sia giusto ammettere che io sono stato, diciamo così, ambivalente nei confronti di certe cerimonie. Potrei aver avuto l’abitudine di mettere in discussione il senso della loro esistenza, e di averlo fatto con un certo grado di cinismo. In realtà, ricordo distintamente di aver pensato, tra le altre cose, “come faccio ad accettare questo premio sul serio se questi aprono le porte a X, Y e Z e non riconoscono l’importanza dei Cure?”. Qualche tempo fa ho ricevuto una telefonata inaspettata e beh, eccoci qua. Diciamo che non sono mai stato così felice di rimangiare le parole dette.