«Nessuno è come Aphex Twin» mi racconta nel backstage Samuel dei Subsonica. «La maggior parte degli artisti lavora verticalmente, investendoti di onde sonore dalla testa ai piedi. Lui invece lavora orizzontalmente, per frequenze. Se ti vuole andare in testa ti bombarda di alte, se vuole risuonarti in pancia partono le basse. Non mi viene in mente nessun altro capace di questo.» Ed è vero, se dev’esserci uno scienziato della lunghezza d’onda, nel live come su disco, quello è Aphex Twin. Manco a dirlo, il suo live di sabato sera era il più atteso di quest’edizione di Club To Club, quindi a maggior ragione è stato il più seguito e pure il più discusso.
C’è chi ha detto che è stato incredibile, chi invece è rimasto deluso, chi si è offeso dalla “breve” durata di un’ora e mezza, chi poi si è scandalizzato per l’accostamento di immagini di Calimero, Cicciolina, Berlinguer, Rita Levi ecc nei visual. C’è chi ha apprezzato solo i primi e gli ultimi 10 minuti (finale jungle davvero inebriante), e chi invece grida al “vi cagate l’underground solo quando ve lo suona Aphex Twin”. Tutte cose che ci possono anche stare. Il discorso però è un altro. L’edizione dei 18 anni del festival torinese non l’ha fatta di certo Aphex Twin, sempre per quel detto da pubblicità dei biscotti per cui la felicità sta nelle piccole cose, o qualcosa del genere.
Piccole si fa per dire, perché OK che per portata e hype nessuno poteva competere con Richard D James, ma quanto a endorfine qua ci sono state delle gigantesche rivelazioni dal vivo. Tanto per cominciare Blood Orange, sul palco insieme a band mostruosa e due coristi allucinanti. Concentrandosi principalmente sul nuovo Negro Swan, Dev Hynes ha cantato, ballato, suonato da Dio chitarra e piano tanto da farci dimenticare per un’oretta che Prince non è più tra noi. Nel pubblico tra l’altro (ci sono i video, ma per correttezza non li pubblichiamo) più di una persona ha individuato un Guy Man dei Daft Punk davvero compiaciuto del live, quindi motivo in più per dire che era valido. E poi Yves Tumor, che nonostante l’ingrato compito di aprire la serata di sabato riesce comunque a trascinare la folla del main stage con la sola forza del suo dito indice (per schiacciare play dal computer) e di una presenza scenica devastante. Tipo che ci sono voluti due fonici con le torce per allontanarlo dal palco, altrimenti sarebbe stato lì tutta la sera.
Buona anche la prova delle OGR il giovedì, ormai comprovato alleato del Lingotto che fra Call Super, Tirzah, Palm Wine e una mandria di torinesi agguerriti si è fatto beffa di chi arriva a Club To Club solo per il weekend e gli ospitoni importanti. E sempre in questo senso, zitta zitta, la piovosa serata di domenica si è rivelata essere una delle cose più fighe mai fatte in tutte le 18 edizioni del festival, merito anche di Kode9, il mercato di Porta Palazzo, i piccioni, e Red Bull Music che ha riunito tutto questo sotto il segno delle colonne sonore dei videogiochi giapponesi e degli anime proiettati sui megaschermi. Davvero inebriante.
Un po’ meno piacevole è stata la cassa dritta da coltello fra i denti e gambe in spalla che Jamie XX e Peggy Gou hanno lanciato sulla folla del main stage. Quest’ultima poi, con una mossa che dire populista è poco, si è presentata in consolle con tanto di maglia della juve. E giù drittoni molto pop ma poco avant. Anche lì, meno male esiste un Crack stage più piccolo (dove gli anni scorsi stava quello grande, tanto per avere un’idea di un festival che cresce). Per cui, al posto dei due sciamannati di cui sopra, uno si poteva vedere la prima italiana di Obongjayar (super) e uno Skee Mask così in forma da annullare la data del giorno dopo in Finlandia, da quanto era in serata.
Ma se venerdì è stata la serata meno convincente, è paradossalmente quella che ha ospitato il live più emozionante del festival. «Grazie Club To Club, è un onore essere qui. Adoriamo il tema di quest’anno: “La luce al buio”» ha detto al microfono Victoria Legrand verso la fine del set dei suoi Beach House, omaggiando così anche lei Franco Battiato. «È qualcosa in cui ci ritroviamo molto». Poche luci, delay riverberati, un proiettore, le loro sagome al buio, la capacità di suonare come Iddio comanda un album, 7, tra i migliori usciti quest’anno et voilà, ci siamo ritrovati a volare come delle lucciole disperse nelle tenebre del Lingotto. Sui pad onirici dell’ultima Dive ricordo solo di aver girato la testa verso Guido, spalla di Sergio Ricciardone nella direzione artistica del festival. Occhi lucidi lui, occhi lucidi io, un secondo di silenzio. Risata collettiva. Tutto a posto.