I rischi, quando ci si trova di fronte all’ennesima raccolta postuma di un artista che ha fatto la storia, sono sempre i soliti: che le “rarità” e i live recuperati per l’occasione da chissà dove siano documenti in realtà del tutto trascurabili, e che gli inediti mai pubblicati prima e ora – guarda caso – riportati alla luce siano solo esemplificativi del perché l’autore li avesse piuttosto lasciati nel cassetto per una vita – vi ricordate il disco solista di Kurt Cobain? Appunto.
Più o meno gli stessi pericoli, quindi, pendevano in capo a duvudubà, il best of con 70 (SETTANTA) fra le più importanti canzoni di Lucio Dalla uscito lo scorso 26 ottobre. Certo, il piatto forte del menù restano la sfilza di brani rimasterizzati, da approcciare soprattutto per riscoprine una nitidezza (e una “pienezza”) che finalmente rende giustizia al cantautore italiano che più di tutti ha accompagnato le sue evoluzioni lessicali e poetiche con altrettanto intensi – e complessi – tour de force strumentali, inevitabilmente oscurati dalle registrazioni made in 70s e ora riemersi con decisione. Ascoltarsi in 192 KHz il basso di Milano, o la cristallina giovinezza de La canzone di Orlando, insomma, fa un certo effetto.
Però, al di là di questo, il resto dell’offerta si articola per “rarità” un po’ così, e per un inedito che faceva tremare le gambe in partenza. Starter è il titolo, ed è figlio illegittimo della stagione di “Work in Progress”, fra il 2010 e 2011 – neanche a dirvelo: la fase discendente della carriera di Dalla, e uno dei periodi meno ispirati in assoluto, per lui. Eppure, nonostante non sia neanche lontanamente ai livelli dei capolavori degli anni Settanta, o di vette successive come Caruso, è comunque una canzone che – per quanto pubblicata solo oggi – ha ancora motivo di esistere, e aggiunge davvero qualcosa al discorso portato avanti da tutta l’opera di Lucio.
Stilisticamente siamo ampiamente sulla scia collaudata de Il contrario di me (2007), su un pop d’autore vellutato e vagamente etnico, incrociato con l’ubriacatura elettronica-eccentrica di singoli come Ciao – di cui è evidente l’eco, soprattutto nella prima strofa. Sarà allora per quel “che bello: lascia suonare! Lascia suonare!” che Dalla scocca in apertura, quando attaccano le prime note di sax, che il cuore sobbalza. Una frase strappata da un provino, quella, e che sembra provvidenziale: noi, timorosi di spingerci all’ascolto perché potremmo restarne delusi; Dalla, come se fosse ancora qui vicino, con l’entusiasmo di sempre ci tende una mano da chissà dove, e ci spinge a lasciarci andare per tre minuti.
Da lì, dal crescere di sax, parte un pezzo che definire testamentario sarebbe scorretto, perché di conclusivo non ha nulla. Piuttosto, sembra un ritaglio di un’altra epoca, un brano in cui Dalla azzanna la vita con lo spirito di sempre: l’alto e il basso, l’amore per l’esistere e le sue contraddizioni, il bene e il male sempre insieme, inscindibili, entrambi irrinunciabili. “Mi affitterò una macchina per andare su e giù, e una colla che non si stacca mai, così quando ti siedi non ti alzi più” dice lui, e in un attimo esplode davvero tutto il suo attaccamento a questa Terra, perno unico del senso di tutta Starter.
E poi chili su chili di un quotidiano raccontato con morbosità, con la morbosità di chi non vorrebbe mai farne a meno: il mal di schiena, una cena a Cattolica, una donna sadica e bellissima. L’ultimo sussulto: “dai facciamolo di notte, che non c’è nessuno e non lo facciamo più”. “Vorrei che questa estate non finisse mai” è l’epitaffio che rimane, e potrebbe averlo scritto Lucio su un suo diario, oppure il destino. In ogni caso, questa frase non ha mai avuto un peso tanto intenso come qui, come ora, sul resto della musica italiana.
L’assolo, caldissimo, di sax è l’abbraccio finale con cui Dalla si congeda, prima di andare per davvero. Se poi doveste sentire il bisogno di scansarvi, perché proprio Starter non dovesse piacervi, be’, dentro duvudubà trovate sempre dei remastered bellissimi su cui perdere le giornate. E lì non avete proprio scuse.