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L’ultima intervista di Bobby Keys: «Credo nella musica, con devozione»

Gli inizi con Buddy Holly, le jam con Eric Clapton e John Lennon. E gli anni con i Rolling Stones: «Com'è nata? Ero nello studio di fianco e gli serviva un sax»
Bobby Keys, grande sassofonista, è morto ieri. Il 18 dicembre avrebbe compiuto 71 anni

Bobby Keys, grande sassofonista, è morto ieri. Il 18 dicembre avrebbe compiuto 71 anni

La leggenda del sax Bobby Keys è passato a miglior vita all’età di 70 anni. È conosciuto per aver suonato con i Rolling Stones per più di 45 anni, ma la sua carriera è iniziata molto prima – dalla amicizia giovanile con Buddy Holly fino al ruolo con personalità di successo come i Plastic Ono Band e George Harrison. L’ho visto nel 2012, quando Keys era in giro a promuovere il suo libro Every Night’s a Saturday Night, e abbiamo parlato del suo folle passato e della sua lunga carriera.

Sappiamo che hai partecipato a un sacco di quei festival itineranti del presentatore Dick Clark, all’inizio della tua carriera. Raccontaci com’era.
Io ero appena uscito dal Texas ai tempi in cui tutto stava per accadere, e in attimo mi ritrovai a girare per strada con un pugno di persone che avevano album nella Top 10 – Little Anthony e Little Eva, Major Lance, Billy Stewart e Freddy Cannon. Era gente che meno di un anno prima sentivo alla radio. Vedi, nei tour il tuo posto a sedere nell’autobus determina il tuo stato d’animo. E, ti dirò, la band è andato a sedersi nel retro del bus.

Com’era il sound a quei concerti? È stato prima che gli Stones cambiassero il modo di fare il tour?
Era davvero brutto. Voglio dire, gli amplificatori non erano grandi come quelli di adesso. Non c’erano casse spia. C’era un microfono per Anthony e un altro per gli Imperials, e poi un altro dedicato alla sezione fiati, ma gli impianti non erano nella maniera più assoluta evoluti come quelli di oggi, dove ogni singolo elemento sul palco è microfonato, anche le mutande del batterista.

Non so leggere la musica,
non saprei spiegare come il sassofono riesca ad
emettere quei suoni, ma
me ne faccio un’idea.

Chi ti ha tirato in mezzo in questi tour?
Ho sempre amato Little Antony e gli Imperials. Sono stati i precursori dei Temptation, adoravo la loro musica. E poi avevamo qualcosa in comune che bolliva in pentola.

Dev’essere stato difficile trovare del fumo in quei giorni.
Beh, lo è stato per me, perché non conoscevo nessuno! Ma ho avuto modo di diventare amico dei ragazzi degli Imperials. Se chiedevo a Sammy o Clarence o chiunque ci fosse di andarmi a prendere una borsa, al ritorno ci trovavo dentro dei piccoli sacchetti di caramelle, piccoli pacchetti di carta marrone. Un pacchetto pieno come quello poteva valere circa 10 dollari, ed era… (ride) non come oggi.

I Rolling Stones suonano “Can’t You Hear Me Knocking” al Madison Square Garden di New York City nel 2003:

È molto più difficile trovane oggi? 
Ehh. Ho fumato per oltre 50 anni, tutti i giorni – a meno che non fossi in prigione. Sono un devoto fumatore di marijuana, lo sono stato e lo sarò, non la vedo come una cosa dannosa o sbagliata, se non nel costo. La compravo a 90 dollari al chilo – e un chilo sono circa 35 once. Ora a New York la vendono per 500 dollari l’oncia. È ridicolo! Assurdo! Legalizzatela, tassatela anche, l’intero paese è distrutto. Torneremmo a crescere. Io stesso coprirei una grandissima fetta di mercato, e ho un gran numero di amici che la pensano alla stessa maniera.

Hai conosciuto Buddy Holly tanti anni fa. Che tipo era?
In realtà non lo conoscevo veramente bene, perché era più vecchio di me. Quattro o cinque anni di differenza creavano una grande differenza sociale. Ricordo un pomeriggio, lui era fuori davanti al suo portico, seduto su una sedia a dondolo, mentre io stavo vagando lungo la strada vicino casa di mia zia. A un certo punto mi ha detto: «Sai Robert, credo proprio che ce la farò». L’ho guardato e gli ho risposto: «Non so che dire. Non ti vedo bene». Ovviamente stavo scherzando. Buddy era un tizio piuttosto energico, è stato il primo che ho visto suonare la chitarra elettrica.

I palchi su cui ho iniziato
erano diversi da quelli di oggi, dove microfonano anche le mutande del batterista.

Nel tuo libro tu racconti di quando hai registrato “The Wanderer”, il vagabondo, di Dion. Ma hai davvero vagabondandato durante quella sessione?
Si, è un dato di fatto. Non so se ero davvero io in quella registrazione di 6 mesi prima. So che un altro sassofonista ha parlato con Dion e si ricordava della mia presenza lì. Io ero un po’ stonato e c’era un altro ragazzo che è venuto nei giorni successivi per suonare la stessa parte che ho fatto io. Ma non saprei riconoscere la diffrenza, penso di essere io (e ride…) ma in effetti era la prima volta che sentivo me stesso alla radio su un disco di successo.

Come ti sei sentito? Come è stato?
Beh. È un po’ come il figlio che ottiene le chiavi della macchina nuova. Molto divertente, mi sono sentito veramente bene.

Hai pensato che la canzone sarebbe diventata un classico?
No! Ma si sa, anche la prima sessione che ho fatto con gli Stones fu una coincidenza. Stavo vagando lungo il corridoio del loro stesso studio, con Delaney & Bonnie & Friends, e gli Stones erano lì che facevano le sovraincisioni, cosa diavolo era… insomma uno dei primi album. Uno di quelli buoni. Ai tempi erano ancora con la Decca Records. Che album era… c’era una torta di compleanno in copertina!

“Let It Bleed”.
Ecco. Era la prima volta che registravo con gli Stones. Mi era capitato di incontrare Keith nel corridoio, e il ragazzo che aveva prodotto Delaney & Bonnie e l’album live di Eric Clapton era lì che stava producendo anche l’album degli Stones. Ricordo che l’avevo conosciuto in Inghilterra. In ogni caso, aveva suggerito a Mick di aggiungere un assolo di sassofono all’interno del pezzo. Così sono venuti giù nello Studio B, dove mi trovavo con Delaney e Bonnie e mi hanno detto: «Ehi prendi il tuo sassofono e vieni nello Studio A». E questo è proprio quello che ho fatto. Un paio di riprese, et voilà! Il mio primo disco con i Rolling Stones era fatto.

Nel tuo libro parli del 1970. Quando tutti vivevano in Inghilterra e tutti potevano andare a casa di Ringo, di Ronnie o di Keith. Com’era stare in mezzo a tutto questo?
Bene, ti dirò. Sono stato parecchio in giro e mi sono divertito molto, perché era come un grande club fraterno, non c’era nulla di negativo. Tutti avevano i loro record di vendite e si girava su e giù per King Road, tra pub e discoteche, ascoltando un sacco di musica. Ognuno indossava pantaloni lucidi e scarpe di coccodrillo. Era davvero bello. Tutti vivevano in quella zona, io stavo lì con Mick, e Keith viveva appena un isolato dopo. Era un party continuo. Era grandioso. Era meraviglioso. Come se qualcuno avesse detto: «Siediti e traccia il tuo paradiso del rock&roll».

Puoi parlarmi di come è nato l’assolo di “Brown Sugar”?
Sarà stato il 1970 o ’71. È nato suonando con Keith alla mia festa di compleanno in Inghilterra. In origine Brown Sugar aveva solo un assolo di chitarra. Ma poi, a quella festa di compleanno (c’erano Keith, Eric Clapton, George Harrison, Ringo e Keith Moon, più qualche altro) eravamo finiti a suonare tutti insieme Brown Sugar. Una grande jam. Io avevo fatto il mio assolo. Jimmy Miller e Mick mi dissero: «Puoi fare di nuovo quello che hai fatto?» e io risposi: «Cavoli, non ho la minima idea di che cosa abbia fatto, ma se l’ho fatto una volta, posso rifarlo un’altra».

I Rolling Stones suonano “Brown Sugar” con Bobby Keys, in Texas nel 1972:

Qualche altra sessione degli Stones che vale la pena di esser ricordata?
Beh, devo dire che il tempo passato insieme nel Sud della Francia è stato importante. Era stata una sessione di circa sei mesi. Ho amato molto suonare con John Lennon per Whatever Gets You Thru The Night. Ho provato a dare il meglio di me, ma devo dire che poche persone riescono davvero a tirar fuori il meglio di te. Ed è quello che è successo con persone come John Lennon, gli Stones, Delaney & Bonnie e Joe Cocker!

Qual è il tuo concerto preferito tra quelli che hai fatto con gli Stones?
Penso quello del luglio 1972 in Madison Square Garden con Stevie Wonder, che ha aperto lo show. Ricordo di avere tirato a un poliziotto una torta meringata al limone in faccia. Era l’ultima data del tour del 1972, e New York in quegli anni era decisamente la città degli Stones. Suonammo circa tre o quattro notti consecutive al Madison Square Garden e quella era stata l’ultima.

Tu hai suonato con tante altre leggende della musica. Gli Stones hanno qualcosa di diverso, vero? Quando suonano, loro hanno il suono dentro.
Yeah! E se credi nella magia del rock&roll, cosa che io faccio con devozione, non è una questione di individui. Stiamo parlando di musicisti di serie A, ma a meno che non suonino insieme, non viene fuori nulla di veramente buono. Puoi prendere delle persone che da sole non valgono niente, ma che messe insieme riescono a raggiungere un valore così unico che a volte diventa incomprensibile per gli altri. Questi ragazzi hanno qualcosa di veramente speciale che gli appartiene. È parte della musica da cui anch’io provengo, perché, per esempio, io non so leggere la musica, non saprei spiegare come quel sassofono riesca ad emettere quei suoni, me ne faccio un’idea. Ma non so leggere la musica, viene tutto dai sentimenti, da un insieme di sensazioni, e quelle sensazioni vengono dal rock&roll.

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