Sono passati novant’anni esatti da quando il tecnico radiotelegrafista francese Maurice Martenot inventò quello che viene formalmente considerato il primo vero strumento elettronico, l’onde Martenot, concepito grazie all’incontro del suo inventore con un altro pioniere, il russo Leon Theremin, a sua volta ideatore dell’omonimo strumento ad oggi ancora utilizzato.
Novant’anni in cui lo studio della potenzialità creativa della macchina si è fatto nave rompighiaccio con cui i compositori hanno esplorato confini prima ritenuti inaccessibili, talvolta addirittura inesistenti tanto impensabile era il limite oltre cui la ricerca sonora poteva spingersi. Immaginate come avrebbe reagito Beethoven se, mentre componeva le sue sinfonie, un visitatore dal futuro gli avesse messo davanti la partitura del Gesang der Jünglinge, l’opera che il suo quasi concittadino Karlheinz Stockhausen avrebbe composto dopo circa 130 anni dalla sua morte. O ancora, se avessero detto a Bruno Maderna e Luciano Berio che la sperimentazione possibile solo attraverso i mastodontici macchinari dello Studio di Fonologia di Milano sarebbe stata iperminiaturizzata nei codici di Max MSP.
Un secolo dove l’astronave della musica elettronica ha viaggiato attraverso rotte semplicemente non tracciabili da altri generi, dove la specificità sonora dello strumento ha un ruolo centrale nella composizione stessa – si pensi al significato essenziale della chitarra elettrica per il rock o della tromba per il jazz paragonate alla ‘onnipotenzialità’ timbrica dell’oscillatore. Che dire poi dell’impatto devastante di un mondo sonoro prima confinato nelle aule di alcuni istituti di ricerca poi atterrato in universi creduti opposti, perché se al termine “rock” si aggiunge il prefisso “synth” il risultato cambia, eccome, e dai Beatles si passa a Robert Moog e agli Emerson, Lake & Palmer, ai Pink Floyd, poi ai Kraftwerk, Brian Eno, Jean-Michel Jarre e così via fino a Grandmaster Flash, Frankie Knuckles, Jeff Mills, Radiohead, Modeselektor, Oneohtrix Point Never…
Un contagio, quello della musica sintetizzata, che non ha fatto prigionieri, inerpicandosi dentro il DNA dei generi musicali, modificandolo dal suo interno. Ma è stato precisamente vent’anni fa, nel 1998 – vuoi per l’accessibilità a internet ormai quasi universalizzata dalla nascita di Google, vuoi per l’universalizzazione musicale già compiuta da Mtv – che i suoni dell’elettronica hanno iniziato a diffondersi con più decisione, anche fuori dai club o dalle orecchie più ricercate. Nell’anno in cui house e techno trovavano i rispettivi alfieri in album come First Floor di Theo Parrish o Consumed di Plastikman aka Richie Hawtin, cinque dischi contribuivano a riscrivere le regole, a lanciare in orbita etichette discografiche o, ancora, a trascinare alla luce delle classifiche atmosfere solitamente relegate nelle tenebre.
“Moon Safari” Air (16 gennaio 1998)
A MaDchester c’erano i Chemical Brothers, che nel ’98 davano l’addio al Sankeys Soap, uno dei club che ha visto sorgere il mito dei due fratelli chimici; a Berlino, nello stesso anno, apriva l’Ostgut, il club che raccogliendo il latex del locale gay feticista Snax, qualche anno dopo avrebbe dato vita alla Mecca della techno, l’ermetico Berghain. E Parigi? Sulle rive della Senna le roi Laurent Garnier pubblicava il suo Early Works , autobiografia scritta sui filtri della Roland 303, e i Daft Punk, proiettati nell’iperspazio dopo Homework, iniziavano a preparare i campioni per l’epocale Discovery, l’album con cui i due robot avrebbero raccontato un nuovo universo sonoro attraverso i personaggi di Interstella 5555. Tuttavia, ciò che Bangalter e de Homem-Christo non sapevano, è che solo qualche isolato più in là dallo studio in cui erano intenti a tagliuzzare Cola Bottle Baby di Edwin Birdsong, un’altra coppia di musicisti stava per pubblicare un album nato come fosse un antidoto al suono anfetamico che sconvolgeva l’Europa in quegli anni. Tra fruscii di Mellotron e bassi sussurati, Moon Safari è un Odissea nello Spazio su un astronave di seta, in cui la protagonista – la Luna, ovvero La femme d’argent ritratta nel primo brano – trova la sua controparte in Kelly, immobilizzata a guardare le stelle fra le note del singolo che lanciò due musicisti debuttanti di Versailles in heavy rotation sulle radio francesi. Come un incontro tra i Kraftwerk e Jeanne Moreau, gli Air riuscirono nell’impresa di piombare nelle classifiche mondiali, ma con con la grazia di una ballerina da carillon, diventando così raccordo impensabile tra il turbinio glitterato di Mtv e un sincretismo che fondeva un’estetica sfacciatamente francese ad accenni della psichedelica cosmica degli anni ’70.
“Mezzanine” Massive Attack (20 aprile 1998)
Dimenticatevi gli inni alla grande ruota dell’interconnessione universale (Hymn of the Big Wheel), i ritmi caraibici ricolmi d’amore di Unfinished Sympathy o la voce di Shara Nelson mentre sussurra che stanotte saremo sicuri da ogni male (Safe from Harm). Con Mezzanine i Massive Attack scavarono dentro un buco nero claustrofobico, dove lo scenario per la cosiddetta trilogia di Bristol era già fissato sullo sfondo del palco con l’abisso di mercurio liquido messo in musica da Beth Gibbons e Geoff Barrow nel loro omonimo Portishead del ’97, e prima ancora con il ringhio soffocato di Tricky, che nel ’96 con Pre-Millennium Tension, in mezzo a nubi inestricabili dense di fumo, continuava ad esplorare la stessa schizofrenia del capolavoro Maxinquaye. Mezzanine è un album concepito come fosse uno specchio allo Xanax per un racconto kafkiano: qui non c’è più nessuna “protezione”, qui si precipita nell’alienazione vivisezionata indossando uno scafandro di piombo, sigillato dall’ingresso inquietante di Angel. Scarnificato il passato dei primi due dischi, ora viene esaminata al microscopio l’inevitabilità dell’isolamento, cantato attraverso “ego denutriti” raccontati dalla voce paranoica di Robert ‘3D’ Del Naja in Inertia Creeps o nell’ansia da dipendenza che Grant ‘Daddy G’ Marshall inchioda in Risingson. Non c’è nessuna pietà, nemmeno per la bellezza e l’amore cantato dalla leggenda reggae Horace Andy nei suoi brani originali, brani che in Mezzanine furono ridipinti usando colori sideralmente opposti, perché Angel ora diventa l’incontro con lo sguardo raggelante di Medusa o Man Next Door il racconto delle violenze domestiche dall’altra parte del muro di cartongesso. Leggenda vuole, poi, che per il singolo diventato eredità dei Massive Attack, Andrew “Mushroom” Vowles avesse scelto Madonna per sussurrare la disperazione di Teardrop, ma la frattura con Del Naja era ormai insanabile, e 3D aveva già scelto: Liz Fraser, la cantante e cantautrice dei Cocteau Twins, avrebbe portato al brano la sua voce di cristallo, ancora inondata dal dolore per la fine della band, registrando nel giorno in cui l’amico e collega Jeff Buckley annegava nelle acque del Wolf River. Con Mezzanine i Massive Attack spararono al cuore di un genere che loro stessi avevano fondato, scorticandosi vivi pur di uscire da un’orbita gravitazionale – quella del trip-hop – che rischiava di perdersi, continuando a girare su stessa, ma così facendo consegnarono alla storia un suono abissale, di cui il riverbero è ancora percettibile nell’oscurità glaciale di Burial o nell’isolamento di James Blake, nella fragilità di FKA Twigs o nelle distorsioni dei ‘delfini’ Young Fathers.
“Music Has the Right to Children” Boards of Canada (20 aprile 1998)
Pensando al genere ‘altezzosamente’ rinominato IDM (dove l’acronimo sta per Intelligent Dance Music) declinato nelle sue sfumature ambient, escludendo ovviamente l’iperuranio occupato da Aphex Twin con i suoi lavori espressamente dedicati a questa fisionomia sonora, il primo nome – e il primo disco – che vengono in mente sono indubitabilmente i Boards Of Canada con il loro esordio intitolato Music Has the Right to Children. I dettami sono gli stessi scritti da sua maestà RDJ nelle sacre tavole dell’elettronica, conosciute anche come Selected Ambient Works, ripresi dai due fratelli scozzesi e spogliati fino all’atomo originario del suono. Il nucleo di Music Has the Right to Children è una fusione tra il sampling del trip-hop nella sua faccia più stelle e strisce, più vicina a Endtroducing….. di DJ Shadow che al porto di Bristol per intenderci, e gli elementi più caratterizzanti del suono forgiato da Aphex Twin, nient’altro. Il risultato è un album di un’eleganza spiazzante, stratificato nella sua semplicità, dove l’elemento ritmico e quello sonoro sembrano intrecciarsi come fossero la struttura genetica dell’album, ma senza mai inglobarsi a vicenda. I sintetizzatori sequenziati diventano segnali radar, lasciati volatili, dove le frequenze non trovano ostacoli se non nella Babele ritmica, co-protagonista dell’album, in una battaglia sonora fra due antagonisti amanti. L’ingresso di Music Has the Right to Children è il luogo in cui risuona più forte l’eco di Aphex Twin, nell’oscurità acida di An Eagle in Your Mind e Telephasic Workshop, dove il glitch del primo è ‘contrappunto’ al rincorrersi dei campioni vocali del secondo, filtrati a sangue da un muro di modulari. Un escamotage ritmico di cui Michael e Marcus Eoin furono fra i primi sperimentatori, tecnica divenuta poi attributo inscindibile per il genere IDM ma non solo, si pensi a Radiohead o Modeselektor. Alle ombre di questi e altri brani risponde la luce di Triangles & Rhombuses, Bocuma o Aquarius, un gioco di contrasti estremamente fruibile che rese Music Has the Right to Children uno fra i lavori che più contribuirono a scrivere le pagine del mito Warp Records.
“LP5” Autechre (13 luglio 1998)
Quando gli Autechre pubblicarono questa schizofrenica opera innominata, i due alfieri di casa Warp erano già stelle fisse del panorama elettronico internazionale. Insieme all’eterno ‘rivale’ Aphex Twin, i due di Manchester avevano iniziato ormai da qualche tempo a indicare la via che da lì in avanti avrebbe intrapreso la sintesi sperimentale. Tuttavia, mentre il primo aveva già ‘rinnegato’ quasi del tutto le melodie incorporee dei primi lavori nel vortice acido della raccolta Classics prima e del pilastro …I Care Because You Do dopo, gli Autechre vivevano ancora nell’Universo scandito da leggi determinabili. I primi sintomi del manicomio ritmico che sarebbe diventato loro prerogativa, tuttavia, già erano emersi dall’oceano sonoro di Incunabula e Amber, rimanendo comunque nei confini dell’intellegibile di Tri Repetae e Chiastic Slide. Infatti, fu con il lavoro battezzato da Warp con il nome di LP5 che gli Autechre salutarono la compagnia per trasferirsi in pianta stabile dentro un cosmo anarchico e dissonante, di cui ignoriamo le regole semplicemente perché non ce ne sono. Pur rimanendo incontaminato nella sua perfezione minimale, qui il suono viene deturpato oltre ogni logica, annullando il significato della nota in una crisi epilettica digitale. LP5 per gli Autechre fu come un’emotrasfusione, dove al sangue sostituirono circuiti meccanici in tilt, anticipando l’assimilazione biomeccanica ricreata da Squarepusher nel 2014 con Music For Robots. Quest’album diventa così una nube insondabile di onomatopee rubate a un futuro distopico (Caliper Remote) che nemmeno il più paranoico dei film Sci-Fi avrebbe potuto concepire. Dove sembra esserci una bagliore di ordine, Vose In o Corc, una destrutturazione improvvisa uccide ogni speranza di categorizzazione, dove l’assalto acustico si fa più feroce (Acroyear2 e 777), Fold4,Wrap5 risponde con una pace estranea. I muri bionici di Under BOAC e Arch Carrier, l’inquietante ninna nanna di Melve, rendono LP5 punto di partenza e insieme meta di chi voglia affrontare l’elettronica sperimentale, un lavoro in cui l’umano è relegato in chiusura, dentro Drane2, la traccia forse più multiforme dell’album cui gli Autechre affidarono la frecciatina rivolta all’‘odiato’ compagno di scuderia Aphex Twin e alla sua Bucephalus Bouncing Ball.
“You’ve Come a Long Way, Baby” Fatboy Slim (19 ottobre 1998)
Sono trascorsi vent’anni da quando l’irriducibile party harder Norman Cook sganciò sulle classifiche di mezzo mondo la sua bomba a idrogeno intitolata You’ve Come a Long Way, Baby. Nel frattempo non si può dire che il dj e producer noto come Fatboy Slim abbia trascorso le ultime due decadi davanti al caminetto della sua villa nell’East Sussex: una staffetta fra cliniche di riabilitazione per sconfiggere la dipendenza all’alcol o la depressione curata con l’ecstasy, nel mezzo anche una fuga in Francia, seguendo il consiglio del vicino di casa Paul McCartney, dopo che una 25enne australiana morì schiacciata dalla calca alla stazione di Brighton Beach in seguito al mastodontico rave gratuito organizzato nel 2002 da Cook, il Big Beach Boutique, cui accorsero più di 250.000 persone, il doppio del pubblico presente quell’anno a Glastonbury. Più che un album, You’ve Come a Long Way, Baby è una sintesi processata su un Atari ST di tutto ciò che Fatboy Slim rappresenta, tra il vizietto di campionare i ritornelli delle canzonette più sciocche che potesse pescare nella sua infinita collezione di dischi e l’ineguagliabile talento di gettarsi di testa dentro un caleidoscopio sonoro figlio della sua stessa follia musicale. Un susseguirsi di hit costruite come un mosaico psichedelico, dove la acid house si confonde all’hip hop, dove il soul e il funk – e in generale tutti gli elementi capaci di far scuotere il culo a chiunque – hanno lo stesso effetto sull’ascoltatore dell’isterismo collettivo ritratto qualche anno più tardi nel video di Ya Mama. L’iniezione di adrenalina dritta al cuore con Right Here Right Now, l’inno della generazione PlayStation Rockafeller Skank e i 108 “fucking” della ‘blasfema’ Fucking In Heaven formano la santa trinità dell’intera discografia di Fatboy Slim, che in You’ve Come a Long Way, Baby infilò anche un paio di instant classic come Ganster Tripping, Praise You o l’‘autobiografica’ Kalifornia. Insomma, se anche una sola volta nella vita vi è passata per il cervello l’idea di comprarvi mixer e giradischi, il collage psicotropo che Norman Cook sfornò nel ’98 è un disco obbligatorio.