Nick Cave è in tour per elaborare un lutto. O almeno è così che ce l’hanno raccontata.
Ogni articolo, ogni report, ogni discussione sui concerti che sta portando in giro nei palazzetti di tutta Europa non riesce a prescindere dalla tragedia che ha colpito lui e la sua famiglia ormai un paio d’anni fa. Come se non fosse più possibile raccontare Nick Cave, e il suo nuovo show, senza passare per quello che è accaduto ad Arthur. E così sui giornali italiani si è tornati a parlare di “Principe dell’oscurità” (bah), e sono stati usati termini come “liturgia”, e “celebrazione funebre collettiva” per descrivere un concerto che in realtà è pura festa. Una festa rituale, carnale, dionisiaca, sì liturgica, ma pur sempre una festa.
Nick Cave dal vivo non ha niente di tenebroso. Non l’ha mai avuto. Il suo modo di stare sul palco è piuttosto quello di un Elvis Presley del post-punk e i Bad Seeds – le mille incarnazioni dei Bad Seeds – sono forse la più grande blues band degli ultimi quarant’anni.
Cave è sempre più a suo agio nel ruolo di Leonard Cohen imprigionato nel corpo di Iggy Pop. Con i suoi fan ha un rapporto per lo più fisico. Li cerca continuamente, li indica, appoggia i piedi sulle loro spalle, tende le mani. Ribalta il concetto di fanatismo: non sono loro a cercare un contatto con lui, ma è lui a pretenderlo quasi ossessivamente.
Nel presentare questo tour che ieri sera, a Roma, ha concluso il suo giro in Italia dopo le date di Padova e Milano, ha più volte usato l’espressione “comunione”. E non nel senso del sacramento, ma proprio di comunicazione empatica tra lui e la sua gente.
Ha annullato le barriere, e lo ha fatto in maniera potentissima scegliendo proprio quei luoghi che sono barriera già da par loro. I palazzetti non sono adatti alla musica di Nick Cave, si diceva un anno fa ai tempi dell’annuncio del tour, e la sfida in fondo era proprio quella lì. Più che riempirli era importante non venire schiacciati dal contesto, e utilizzarlo per creare una dimensione nuova. E ora, col senno di poi, possiamo dire che ce l’ha fatta.
Non era il solito Cave. Non erano i Bad Seeds dei festival estivi e neanche quelli visti in spazi dalla capienza ridotta. Erano un’altra cosa. Le canzoni di Skeleton Tree vengono eseguite all’inizio e alla fine della scaletta come se dovessero contenere tutto quello che accadrà nel mezzo. Come se fossero un viatico necessario proprio a creare quell’empatia che è la base vera e propria di questo spettacolo.
La magia però è quella che avviene nella parte centrale quando Higgs Boson Blues cambia completamente l’atmosfera (e un giorno scriveremo di come i pezzi di “Push the Sky Away siano diventati “classici” nel giro di pochissimi anni) ed esalta proprio quella carnalità di cui parlavamo poco sopra. From Her to Eternity arriva a squarciare il velo, Tupelo ci scuote esattamente come accade alla palma presente nel grande schermo dietro i musicisti, Jubilee Street viene eseguita in una versione che così bella davvero forse mai e poi ecco i toni che si abbassano e arrivano The Ship Song e Into My Arms, sulla quale scatta—ovviamente—il sing along.
Fino a quel momento Nick Cave sembra volere animare esclusivamente solo le prime file, che coinvolge e tira in ballo continuamente, mentre al resto del pubblico, quello sugli spalti, sono dedicate le trovate sceniche, i visual, i giochi di luci, i cambi di colore e atmosfera. Lo scambio con quelli davanti, però, serve a catturare anche tutti quelli che sono al primo, al secondo e al terzo anello. Il pubblico della platea non assiste allo show, ma ne è parte.
Gli altri si godono lo spettacolo. Ogni tanto qualcuno scatta in piedi, balla, si lascia andare – come Florence Welch, per esempio, presente tra il pubblico e che non si è risparmiata neanche un secondo – e piano piano non c’è più nessuno che vuole stare seduto. La catarsi collettiva raggiunge il suo picco massimo nel bis di The Weeping Song dove Nick Cave scende tra la folla, attraversa il parterre e sale su una delle postazioni dedicate alle videocamere utilizzate per i visual. “Adesso facciamo una cosa per cui servono tutte e due le mani”, dice chiedendo alla gente di togliere gli smartphone di torno, ed ecco che tutti battono le mani cercando con risultati spesso tragici di tenere il tempo.
Nel frattempo la festa-liturgica si è trasformata in una processione: Nick Cave torna sul palco ma si porta dietro una buona fetta di pubblico al punto che non è più possibile scorgere i sempre ottimi musicisti. Stagger Lee è riproposta in una versione impetuosa. Delirante.
Anche qui c’è gente che pensa sia carino invadere il palco e poi passare il tempo a farsi i selfie, Nick si mette in posa, fa per aspettare che la foto venga scattata e poi con una manata fa volare il cellulare giù per terra. Per Push The Sky Away il delirio resta invariato: fa sedere tutti nella prima parte della canzone per poi esplodere in un vero e proprio abbraccio collettivo.
Nel momento topico, quando durante la canzone canta: “And some people say it just rock and roll, ah but it gets you right down to your soul”, lo fa guardando negli occhi un ragazzo che avrà avuto appena vent’anni e che, senza smettere di ballare, tira fuori un taccuino e una penna e quasi non si capisce se vuole chiedergli un autografo o prendere appunti.
“You’re fucking awesome”, dice Nick e poi scoppia a ridere. La fine della festa. Una festa bellissima.