Diciamolo fin da subito: l’Home di quest’anno non è andato come ci aspettavamo. Fermi però, perché questo significa che il festival — forse il più lungo e succoso dell’intera programmazione estiva italiana — è stato molto spesso anche meglio di quanto avevamo tutti previsto.
È vero, l’annullamento della data di venerdì primo settembre ha lasciato con l’amaro in bocca più persone di quante se ne possa immaginare. Soprattutto dall’estero: gente che ha mobilitato aerei, famiglie, mezzi e risorse per potersi gustare nomi come Liam Gallagher, i Justice e i Wailers (per dirne giusto tre). Nomi che non si vedono molto spesso su un palco, figuriamoci in un palco italiano. Ma settembre è imprevedibile e una tromba d’aria improvvisa nella notte fra giovedì e venerdì ha danneggiato le strutture nell’area del festival (per fortuna deserta a quell’ora di mattina), costringendo i Vigili del Fuoco a vietare gli spettacoli il giorno successivo.
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Una decisione sofferta, che però non ha dipeso dall’impeccabile organizzazione dell’eventone di cinque giorni, iniziato mercoledì 30 in forma light (bravi Omar Pedrini e Max Gazzé) ma è entrato nel vivo solo giovedì 31. Ed è disarmante come dopo quarant’anni di successo e fast life i Duran Duran, unici signori di giovedì, siano ancora quattro ragazzi con tonnellate di tritolo da vendere. Le hit nostalgiche sono tante, e le ex ragazze che negli anni Ottanta sognavano di “sposare Simon Le Bon” riempiono l’area davanti al main stage come mosche attorno al miele, eppure c’è qualcosa che nelle altre band 80’s non c’è. Nessuno qui guarda al passato con una lacrimuccia e le hit del nuovo album riscuotono nel pubblico gli stessi boati di quelle di quando i Duran Duran erano forse la band più in voga al mondo. Da parte sua, poi, Simon ha ancora la voce di un ragazzino e la forza di scatenarla esattamente come 40 anni fa, solo con qualche mossa un po’ meno aggraziata di accompagnamento. Ottimi anche i Soulwax in impostazione “tre batterie e un coltello fra i denti” e dei Moderat ormai alla fine di un tour che forse per loro sarà l’ultimo (almeno per un bel po’ di tempo).
Meno indimenticabile è stata la serata di sabato, che per colpa di quel dannato venerdì e dei dubbi su un tempo costantemente incerto inizia in sordina e forse non raggiunge mai il suo climax. Almeno non dopo il successo dei Duran. L’idea di fondo del festival è poi quella di coprire il più possibile dello spettro della discografia, dando spazio ad act un po’ più di nicchia come quei matti dei Pop X (che hanno messo a dura prova la resistenza del tendone che ospitava il loro set) ma anche a veri e propri fenomeni pop. Uno su tutti, Fedez e J-Ax. Sono due macchine da guerra sul palco, sfoggiano gag apparentemente improvvisate ma in realtà provate e riprovate in un tour immenso. Aprono e chiudono con la stesso tormentone, Senza Pagare, ma non senza aver prima consumato sul palco buona parte di Comunisti Col Rolex, una Santa Barbara di CO2 e coriandoli e le carte bonus di un Fedez chitarrista e J-Ax all’armonica sui pezzi rispolverati degli Articolo 31. «Dito alzato per tutti quei promoter che ieri esultavano per la data annullata dell’Home» urla il pizzetto dei due verso fine live. Entertainment disimpegnato, anche se un po’ troppo impostato sull’hating, una cosa un po’ da sfigati. L’esatto opposto di Tommaso Paradiso e i suoi Thegiornalisti, che in un 45 minuti serrati di set la mette sul volemose bene e sul ridere, invitando persino Jerry Calà sul palco per fare insieme Riccione e—bonus trash—pure Maracaibo.
L’ultimo appuntamento del festival ha regalato al pubblico un excursus inter-generazionale, tra i giovanissimi accorsi per la trap di Ghali fino ai devoti di Manuel Agnelli che, con i suoi Afterhours anni di carriera per la band che più di ogni altra ha segnato il destino della scena alternative italiana. Con il rammarico per il mancato appuntamento di venerdì ormai alle spalle, la festa di domenica chiude la rassegna come meglio non poteva fare. Marra e Gué portano in scena una buona e sana dose di istrionismo, dopo la ‘spacconaggine’ al limite del grottesco esibita la sera precedente dai loro Insta-rivali, seguiti a ruota dai colori del folk di Mannarino. Levante e Le Luci Della Centrale Elettrica indossano egregiamente la bandiera dell’indie Made In Italy mentre, in chiusura, due fra le band più attese dal pubblico accorso a Treviso: da una parte gli Afterhours, probabilmente la band italiana attualmente più autorevole e potente, dall’altra i Libertines. Peter Doherty e Carl Barât hanno sfoggiato la complicità dei tempi migliori, quando insieme scrivevano il sound della nuova ondata indie albionica, con lo sguardo del chitarrista sempre attento alle mosse dell’esuberante collega, tornato sui palchi con un energia che non si vedeva da tempo corredato da una fantastica maglietta azzurra della Nazionale italiana datata 1990.