Il festival I-Days che da quest’anno si è trasferito nell’Area Expo Experience di Rho finisce con delle certezze. La prima: la location è ottima, il doppio palco (quello grande per i 70.000 dei Pearl Jam e il secondo per tutti gli altri, headliner e opening insieme) funziona, si arriva in metropolitana e anche se la camminata lungo il Decumano per arrivare ai palchi è lunga, serve a smaltire bene il flusso di gente (e poi la postano tutti sui social).
Anche l’ormai iconico e controverso Albero della Vita illuminato durante il concerto dei Pearl Jam non era niente male. L’impressione è che grazie anche ad una line-up sempre più potente l’IDays possa diventare con le dovute proporzioni (e con l’aiuto delle istituzioni, come a Barcellona), il nostro Primavera Sound.
Seconda certezza: il rock’n’roll nella sua versione dal vivo più diretta, sfacciata e potente non è morto, anzi sta decisamente bene.
I Wolf Alice, come dicono i media inglesi da tempo, meritano ormai un posto da headliner perché suonano bene, occupano il palco senza trucchi, sono concentrati sulle canzoni e bravi a dimostrare che oggi anche le “best new band” inglesi (che escono a scadenza regolare) devono dimostrare di avere un’identità live, altrimenti sono fuori. L’identità dei Wolf Alice è la deliziosa Ellie Roswell, che non è solo immagine ma verità, istinto indie anni ’90 alla Pj Harvey e in più si porta dietro un bel po’ di lati oscuri, che la portano a gridare quando serve senza risparmiarsi troppo.
Dopo di loro gli Offspring sono uno spettacolo di fedeltà ad uno stile e ad uno spirito eternamente giovane che ti cattura subito. «Milano, c’è ancora il sole. Siete pronti per divertirvi?» dice Dexter Holland quando gli Offsping escono sul palco degli IDays alle 19.30. «Per me è già notte» risponde Noodles, con la sua pettinatura improbabile, gli occhiali da nerd e la maglietta di Ronnie James Dio.
Sempre uguali, sempre punk, con le loro canzoni semplici (ma in scaletta hanno anche una cover strepitosa di Whole Lotta Rosie degli Ac/Dc nella versione grezza ed isterica alla Bon Scott) e un’energia che risucchia la gente sotto al palco e toglie di dosso 20 anni (a chi li ha). Loro ce li hanno: sono in giro dal 1984, hanno firmato il disco indipendente più venduto di sempre nel 1994 (Smash, uscito per la Epitaph di Brett Gurewitz dei Bad Religion) e a metà anni ‘90 Dexter Holland ha detto che quando avrebbe compiuto 40 anni si vedeva come un professore universitario e non come un cantante di una punk band.
Oggi di anni ne ha 52 eppure è ancora lì sul palco a scaricare tutto il divertimento puro e semplice delle hit degli Offspring (da Original Prankster a Want You Bad e Why Don’t Yoiu Get a Job) insieme a Greg K, Pete Parada e Noodles che di anni ne ha 55 e sicuramente a scuola non ci è mai voluto tornare, visto che quando la band è arrivata al successo faceva il bidello alle elementari di Garden Grove, California. Gli anni hanno lasciato addosso a Dexter Holland un bel po’ di chili, ma anche un dottorato in biologia molecolare sull’HIV conseguito nel 2017 e soprattutto non hanno intaccato la sua voce. Gli Offspring non fanno un disco dal 2012 ma dal vivo spingono parecchio, e quando dopo una raffica serrata di pezzi da 3 minuti arriva Self Esteem sono tutti sotto al palco a pogare.
Quando scende il buio arriva il carico pesante, i Queens of The Stone Age. Josh Homme è un Elvis gigantesco dai capelli rossi e dall’aria sempre minacciosa, si passa un pettine tra i capelli e lancia sguardi di sfida, ringrazia e sorride ma non è per niente rassicurante. I Queens of the Stone Age sono grossi, si aggirano sul palco in mezzo ad aste di neon luminose che si agitano e sono la rappresentazione del senso di pericolo che si porta dietro il rock nella sua versione più drogata, apocalittica e incazzata.
Ogni canzone dei Queens of the Stone Age è un concentrato di cattiveria repressa, sfogata nel volume di amplificatori impastati della sabbia del deserto nel misterioso Rancho de La Luna di Joshua Tree. Con l’ultimo album Villains hanno ritrovato la voglia di far muovere la gente, dopo aver superato la fase psichedelica e pesante di …Like Clockworks del 2013 (nato da un paio di incontri ravvicinati con la morte di Josh Homme) e partono subito forte con Go With the Flow, la sberla in faccia che tutti aspettavano.
I neon ondeggiano sul palco, i Queens of the Stone Age guidati dalla combo di due chitarre e basso di Troy Van Leeuwen e Dean Fertita e Michael Schuman e dalla batteria dello spaventoso Jon Theodore (ex Mars Volta, uno che suona come se avesse quattro braccia) sono un’allucinazione elettrica, ti mettono una mano alla gola e ti attaccano al muro con una scarica di pezzi che sono un cortocircuito continuo tra melodie dei ritornelli e basi granitiche: Feet Don’t Fail Me Now, The Way You Used to Do, No One Knows, Little Sister.
Quando arriva I Wanna Make it With You e tutto il pubblico è stordito da tonnellate di stoner rock, Josh Homme sembra finalmente soddisfatto. Fuma una sigaretta dopo l’altra, si lascia cullare dalle note del ritornello più delicato che abbia mai scritto («Non cantate a me, cantate per me, motherfuckers» dice), poi prende un bottiglia di tequila e la passa alle prime file: «Anche voi della sicurezza, bevete. Bevete tutti, cazzo. Questo è il momento in cui possiamo essere tutti fottutamente liberi. Liberi di fare quello che vogliamo, di cantare insieme, di essere quello che ci pare».
Poi torna la versione cattiva di sé stesso, e prima di chiudere i conti definitivamente con Song for the Dead dice, in italiano: «Con questa vi rompiamo il culo». È l’apoteosi (e la condanna) dello spirito irriducibile dell’età della pietra del rock, in cui se continui a rotolare non ti copri mai di muschio.