È uscito il 23 febbraio Rap. Una storia italiana, prima fatica letteraria di Paola Zukar, persona con un ruolo fondamentale nello sviluppo della cultura rap nel nostro paese, prima nell’editoria (con Aelle), poi in discografia e ora nel management. Vent’anni di attività che l’hanno portata a conoscere il mercato in tutte le sue sfaccettature ed evoluzioni. La donna dietro al successo di Marracash, Fabri Fibra e Clementino (solo per citarne alcuni), ha cercato di raccontare in un libro qual è stato il suo percorso, umano e artistico, e come il rap sia passato da essere underground a mainstream.
Trovate il libro in tutte le librerie ma potete leggere un estratto in esclusiva su Rolling Stone:
Fuori dalla trappola – 2016 e oltre
So now you back in the trap, just that, trapped.
Big Boi, SpottieOttieDopalicious, «Aquemini», 1998
Il rap costa poco e può rendere molto e si può produrre con cifre minime. È il genere perfetto per lo stato di crisi attuale. Dopo aver visto cosa succede ai rapper che hanno la pretesa di avere un rapido riscontro mediatico nazionale nonché un massiccio risultato di vendite, alcuni mc hanno provato un approccio meno diretto al successo, meno spavaldo e hanno coltivato la loro musica solo nel web, in un territorio né aggressivo né moralista nei confronti dei loro contenuti e nel loro modo di essere (al netto degli haters), forti di un pubblico dei pari già presente in forze e pronto ad accogliere a braccia aperte il loro messaggio.
Il successo del rap, della sua forte componente innovativa e «contro» che porta in sé, si manifesta ancora una volta prepotentemente nel 2016 con la versione italiana della trap. Ragazzi giovani dai 18 ai 25 anni che si cimentano con un rap più melodico ma che non c’entra nulla con il pop italiano, bensì mutua canoni stilistici precisi dalla scena statunitense ed europea, soprattutto francese. La trap modifica per l’ennesima volta le metriche tradizionali per renderle più musicali, ipnotiche, lisergiche, oniriche, arrivando talvolta a stravolgere perfino il concetto di tempo. Alcuni rapper, sulla trap, non vanno nemmeno a tempo, ma fanno qualcosa di nuovo e anche di «bello». Non sempre riesce, in effetti, ma gli esperimenti riusciti sono molteplici. Le metriche e le voci vengono immerse nuovamente nell’autotune di cui Jay-Z aveva decretato prematuramente la morte nel 2009, con D.O.A. (Death Of Autotune). Le strumentali subiscono il fascino del South, della West Coast, dell’incredibile e inconfondibile, bellissimo, magico suono della batteria 808, della lean (il bibitone porpora «lanciato» nel mainstram da Lil Wayne e DJ Screw che mischia gazzosa o Fanta e sciroppo alla codeina per rallentare e deformare la percezione del tempo reale, nonché musicale).
La trap riprende per il rap lo spazio nei club americani che per un attimo era stato occupato dall’EDM: tutti ballano o mimano la trap e sul web c’è un’invasione di ragazzini e ragazzine vestiti di tutto punto la cui parola d’ordine è coolness, swag. Nei versi si citano brand street come Supreme o di moda come Versace, Balenciaga e Gucci; si intitolano canzoni con nomi di personaggi noti, da Tom Ford a Wyclef Jean, fino ai nostri YouTuber. Il rap, con la trap, s’impone di essere ultracool e proiettato più sull’immagine, sulla fama, sul disimpegno, il nichilismo, con un piede sulla strada e uno verso la via d’uscita. Le trap house del crack degli anni Novanta e Duemila dove si imparava la legge dello spaccio fino a rimanerci materialmente intrappolati sono solo un’immagine sbiadita che passando di parola in parola perde ogni significato. I testi nel 2016 sono diretti, realistici anche quando nascono solo da fantasie: in Italia la trap attecchisce tra il 2015 e il 2016, ancora una volta grazie al web, soprattutto a YouTube. Grazie anche al lavoro dell’etichetta Roccia Music, in versione 2.0, grazie a Marracash e Shablo che appoggiano subito Sfera Ebbasta di Milano, Achille Lauro di Roma, IZI e Tedua di Genova. Grazie anche alle strumentali originali, pure e cristalline di Charlie Charles, il produttore di Milano che taglia e cuce su misura un suono nuovo e fresco per giovani rapper nazionali ma sono tantissimi i ragazzi che si cimentano con questo sottogenere del rap, in tutta Italia. Sfera firmerà poi con la Def Jam italiana, mentre Ghali (l’esponente di maggior successo con un passato di molta gavetta e un team decisamente intraprendente e finalmente multietnico) continuerà la sua interessantissima corsa in solitaria.
Il 2016 inizia a essere vagamente pronto per un’indipendenza del rap che vuole rimanere tale e non vuole più sciogliersi nel mieloso pop italiano. Intanto Tommy Kuti è il primo afroitaliano a firmare con una major, ad aprire la strada di un investimento che l’etichetta fa su un ragazzo nato ad Abeokuta, in Nigeria, e cresciuto da sempre in Italia… Il primo di tanti altri che verranno. Perché il mondo è cambiato, come dice lui stesso nel mirabile singolo #afroitaliano.
E la radio ancora non passa il rap nel 2016. Ripeto: la radio non passa il rap. Lo scrivo due volte perché non riesco a crederci. Alla terza generazione di rap di successo, le radio mainstream in generale snobbano il rap.
Questa la copertina del volume edito da Baldini&Castoldi: