«Le mura senza il Piper sono solo delle scale che vanno in discesa in un locale rettangolare e piuttosto buio», dice Piotta, «con la sua storia dentro e tutta la musica assurgono a un luogo dove si è fatta e si farà ancora cultura”». L’autore della sigla di Suburra la serie (di cui uscirà l’edizione speciale del 7’’ e la ristampa del disco Nemici a breve) spera che il Piper Club di Roma rimanga nella sua storica sede di via Tagliamento, tra il quartiere Parioli e il Salario.
In questi giorni la notizia della vendita all’asta del Piper ha fatto il giro dei social e dei media, che spesso hanno riportato erroneamente la chiusura del locale. La maggior parte di noi poi ha voluto abboccare alla falsa campagna di crowdfunding nata (e fraintesa) dall’hashtag lanciato da Piotta, #SalviamoilPiper, sul post in cui invitava gli amici a “scollettare” per comprarlo. «Ma io non ho mai fatto una campagna di crowdfounding – ci ha spiegato al telefono – non so perché si è sparsa questa voce. Ho scritto “facciamo una colletta”, in maniera molto ironica e anche con tanto affetto verso un locale che fa musica, che è quindi fortemente legato al luogo in cui è nato, al di là del nome, del marchio e della programmazione». Sarebbero solo le mura ad essere in vendita, a una base d’asta di un milione e quasi settecento mila euro, a causa del fallimento della Luna Immobiliare, la società proprietaria e intestata al defunto Giancarlo Bornigia, uno dei due fondatori del locale.
Il Piper per Tommaso Zanello, aka Piotta, è stato il luogo dove iniziò a «capire meglio cos’era l’hip hop, quello più serio, più hardcore e politico, quello dei Public Enemy». Ci andava di pomeriggio, «ai tempi del ginnasio ad ascoltare l’Italo Disco anni ’90. Passavano i 49ers, gli Atahualpa, i Black Box e i Technotronic e la loro Hip House; tutta musica che aveva un’eco di rap dentro». Oggi il Piper ha una programmazione più house commerciale, con qualche serata di latino americano e revival, ma ancora il cartellone non è stato pubblicato, sappiamo solo che ci saranno Gigi D’Agostino e Jerry Calà.
Nel 1965 il Piper era la “sala da ballo” più grande di Roma, sedotta inizialmente dalla scena beat e dall’underground rock, era divenuta poi prettamente Disco, ma il suo fascino aveva comunque conquistato mezzo mondo. I Beatles e Frank Zappa erano voluti entrare furtivamente per vedere cosa succedeva dentro quella sala con la “buca dell’eco” sotto la platea, un sistema di amplificazione da cui le voci dei Byrds, i Rolling Stones, ma anche di Patty Pravo, Renato Zero, Nino Ferrer, e ancora prima dei Rockes e degli Equipe 84 avevano fatto vibrare le minigonne delle ragazzine del boom economico e della Roma della Dolce Vita.
«Molti erano artisti nati altrove che venivano a Roma perché, in quegli anni, era sicuramente l’epicentro di tante cose, della politica, della televisione e anche della musica», continua Piotta, «un ruolo che purtroppo poi abbiamo perduto perché ormai è Milano la capitale della musica italiana». Le major sono tutte lì, «non ci sono grandi network radiofonici a Roma, solo RDS, che però ha una programmazione pop classica». Ma ci sono diverse etichette indipendenti, come quella di Piotta, La Grande Onda, o la 42 Records di Emiliano Colasanti e Giacomo Fiorenza, la Goodfellas impegnata sia nella distribuzione che nello scouting, e una miriade di artisti che «riescono a superare il casello di Orte nonostante la gavetta l’abbiano fatta su dei palchi del tutto improvvisati. Questo perché a Roma abbiamo l’anarchia: nell’essere un po’ tutti dei selvaggi senza regole, degli ‘ognun per sé’, Roma rimane una fucina di vita urbana e di testi di canzoni, di sale prove, di palchi piccoli o grandi che siano che per un artista sono il luogo ideale. Mi riferisco alla parte iniziale della nascita della creatività, che deve essere piena di emozioni vissute e cose da raccontare».
E la cultura continua a essere la chiave per combattere l’alienazione pessimista che aleggia a Roma in questo periodo. Facce tristi sui mezzi, facce ancora più tristi alle fermate dei mezzi, facce tristissime sui motorini mentre rimangono intrappolate in un ingorgo sul Muro Torto e la puzza degli scarichi sembra preannunciargli una morte precoce. È quindi fondamentale ritrovarsi nei locali, che a Roma ci sono. Parecchi sono stati chiusi, altri ne sono risorti, come il Monk o come il recentissimo Live Alcazar, esteticamente forse uno dei locali più belli di Roma. L’offerta riesce a coprire quasi tutte le richieste, dalla black music, all’elettronica, all’indie rock e l’hip hop. «Il panorama musicale si è aperto molto, un po’ come la tv», dice Piotta, «ci sono più canali di prima e logicamente il numero di spettatori è sempre lo stesso. Ogni canale funziona ma è settoriale, più specifico e ha un seguito più piccolo. Ci sono tante scene musicali, ognuna col suo pubblico che le tiene in vita, ma non sono così trasversali, anche se credo sia meglio così perché viene mantenuta una qualità e una specificità maggiore al genere che ognuno rappresenta e da cui proviene».
Viene da chiedergli se lui, che ha fatto la storia dell’hip hop italiano, apprezzi o meno la trap. «Musicalmente mi piace molto perché ha una sua psichedelia di fondo, drogata, che mi ipnotizza, e mi sorprende che sia la prima volta nella storia dell’hip hop che chi fa le basi è più importante di chi ci canta sopra, è una vera rivoluzione. Le liriche sono strane, non c’è mai un argomento a fuoco, sono come una lunga serie di post, di piccole fotografie, ed è cambiato lo stile di scrittura. Mi piacciono molto Franco 126 e Carl Brave, che hanno l’attitudine di strada declinata in chiave trap. Poi, certo, sono comunque più vicino alla mia generazione che mi sembra abbia un realismo, una concretezza e una voglia di parlare del sociale e della politica che ora trovo meno. Della scena romana hip hop, MezzoSangue, un artista giovane con un’attitudine da vecchia scuola romana, così come Rancore, un lirico fenomenale, e Coez, che ha trovato una sua dimensione mantenendo la chiave hip hop nel modo di scrivere i suoi pezzi, sono quelli che preferisco».