Da quando abbiamo cominciato a usare i social media come delle estensioni di noi stessi (più o meno da sempre) abbiamo anche rivisto il rapporto con l’elaborazione del lutto. In questo sono fondamentali le integrazioni, gli apparati che possiamo usare per far capire al nostro piccolo network cosa significava per noi una tale persona. Insomma, la dimensione collettiva e catartica del lutto celebrata attraverso immagini, foto, disegni, video su YouTube, canzoni su YouTube, qualcosa su YouTube (YouTube è centrale perché ha un flusso di ricerca tale per cui il servizio video di Google è semplicemente il secondo motore di ricerca del mondo dopo – ehm – Google).
Quando è morto David Bowie questa dimensione ha assunto dimensioni evidenti e oggettive. Tutte le nostre timeline (dove per tutte intendo i profili social di quelle poche paia di migliaia di persone interessate alle cose musicali e, più in largo, alle cose culturali) sono state letteralmente invase da David Bowie. Per giorni, quasi per settimane. Sembrava non si ascoltasse, vedesse, fruisse altro che David Bowie. Ed era una celebrazione bellissima: spontanea, addirittura sincera in questi tempi di ostentato cinismo e sopracciglio alzato. Certo, gli algoritmi sono fatti per farci vedere contenuti simili a quelli che postiamo ed è come se avessimo creato un Bowieverso, ma il fenomeno è stato talmente pervasivo da aver occupato davvero per giorni il dibattito (e di solito le “grandi ondate” di opinione durano qualche ora, massimo un giorno).
Quando è iniziata a circolare la notizia della morte di Prince, nella sera del giovedì, abbiamo sperimentato un modo inedito di affrontare la “morte di uno famoso”. Prince, infatti, da luglio 2015 ha rimosso tutto il suo materiale dai servizi di streaming. Niente Spotify; niente Deezer; niente YouTube (solo Tidal, per essere precisi). In questi tempi di ascolto distratto e zapping culturale, l’“artista paranoico per eccellenza” ha deciso – con una mossa degna di Steve Jobs – di avere il controllo assoluto in un mondo in cui sembra tu non possa controllare niente. Un gesto che ha privato milioni di persone che mai si sognerebbero di pagare per la musica di ascoltare, soprappensiero, una versione decente di Purple Rain su Vevo. Un gesto con cui Prince ha anche deciso come essere celebrato. Noi non possiamo postare canzoni di Prince sui social (se non versioni live, video catturati chissà come, versioni cover, video modificati con il pitch, e così via) e questo ha, per certi versi, azzoppato la viralità canonica del lutto. C’è, ma non si vede. Tante parole, tante immagini (come la bellissima copertina del New Yorker che stiamo condividendo tutti), ma poca musica.
È un processo interessante, forse non voluto (anche se da un artista totale come Prince possiamo aspettarci di tutto), con cui la mancanza di canzoni online influisce direttamente sull’elaborazione del lutto. Come se la dimensione collettiva che ritroviamo con fastidiosa frequenza in questo 2016 si svolgesse “in assenza” del protagonista. Controllando la musica, Prince, ha cercato di controllarne il consumo, la fruizione e l’esperienza che ne fanno i fan. Come se la “morte” fosse semplicemente una cosa come un’altra, un impiccio da non sacralizzare per tornare a occuparsi di altro di molto più importante.