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Il report del concerto di John Grant, il “greatest motherfucker”

Ieri sera al Fabrique l'unica data italiana del cantautore americano, perfettamente bilanciato tra momenti intimi e altri più dance
JOHN GRANT - Foto Stampa

JOHN GRANT - Foto Stampa

«Non ho un buon rapporto con il mio corpo ma sul palco mi trasformo completamente», mi aveva confessato John Grant mesi fa al telefono. E in effetti sul palco il cantautore di Denver (ora trasferitosi in Islanda), lo ha dimostrato alla grande, lasciandosi andare sempre più anche ieri sera in concerto al Fabrique, quasi pieno ma solo perché in capienza ridotta, troppo poco per l’unica data italiana di un artista fuoriclasse come lui.

Un concerto perfettamente bilanciato tra i momenti intimi e oscuri e quelli più elettronici e dance, frutto soprattutto delle scelte dell’ultimo album, Grey Tickles, Black Pressure e altri ancora più rock, supportati da una band in gran forma (tra cui spicca soprattutto il batterista Budgie, il batterista di Siouxsie & The Banshees, che ha anche sposato Siouxsie). Un concerto dal clima rilassato nonostante sia iniziato con i controlli con il metal detector, inevitabili in questo periodo.

È partito dietro alle tastiere, Grant, un filo teso e ingessato, ma è bastato poco perché invece con il microfono in mano riuscisse a scatenarsi, ballando con evidente autoironia.
Perché il cantautore dalla voce così potente e profonda – davvero difficile da trovare in circolazione – è un ottimo intrattenitore, in grado di stabilire un forte contatto con il suo pubblico. Anche grazie alle due parole in italiano pronunciate però perfettamente, imparate durante il suo soggiorno sulle Dolomiti («Uno dei posti più belli che abbia mai visto nella mia vita», mi raccontò), una delle innumerevoli lingue che Grant conosce per la sua curiosità.

La grandezza di Grant sta forse la sua capacità di riuscire a parlare dei suoi problemi più intimi senza pudore, senza alcun tono enfatico né tanto meno pietistico, come quando confessò durante un concerto di aver contratto il virus dell’HIV. Ma scegliendo spesso il tono dell’ironia come nei suoi testi. Sul palco canta Grey Tickles, Black Pressure e Pale Green Ghosts (le title track dell’ultimo e del secondo album), naturalmente Queen of Denmark e GMF (Greatest Motherfucker): i pezzi forti dei suoi tre album da solista ci sono ovviamente tutti. Grant aveva anche dichiarato: «Non voglio che la gente mi veda come troppo negativo e ho capito che una cosa che non si può dimenticare mai è il sense of humour e la capacità di ridere, qualunque cosa ti capiti». L’ultimo bis che chiude è Caramel del 2010. Commovente e agro-dolce, come tutto il concerto di Grant.

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