Lo scorso anno erano tutti per J AX.
Tutti.
Bastava farsi un giro tra il pubblico, fare la domanda e aspettare pazienti una risposta che puntuale arrivava a fare capolino nella scia generata dallo sventolio delle bandiere dei Quattro Mori, che negli anni hanno superato in gran numero quelle rosse.
Quest’anno un vero e proprio nome di punta non c’era: la gente – non tantissima, tocca dirlo – è tornata in piazza San Giovanni per celebrare il rito collettivo. Un rito che per essere tale ha bisogno dei suoi momenti chiave. E poco importa che da vent’anni a questa parte siano più o meno sempre gli stessi.
E così mentre i Modena City Ramblers suonavano Fischia il vento e Bella Ciao, da una parte c’era la platea televisiva che su Twitter e Facebook sottolineava l’esibizione con battute al vetriolo, sarcasmo e ironia feroce, e dell’altra la piazza, che per tutto il pomeriggio aveva assistito inerte alle performance di Bugo, Perturbazione e tanti altri, e che di colpo si svegliava e cominciava a fare sentire forte la sua voce.
Lo scollamento è tutto qui: i Modena che suonano Bella Ciao sono l’idea di Concertone del Primo Maggio che tutti i critici e gli analisti vorrebbero accantonare, eppure il pubblico sembra trovare conforto proprio nella ripetizione eterna di eterni cliché.
Lo spettacolo vero, se così si può definire, è sempre quello rappresentato dalla gente: nelle vie intorno alla piazza c’era tutto un fiorire di umanità varia e difficile da raccontare.
Le famiglie a spasso, i fricchettoni col Tavernello, le ragazze in bicicletta, i bambini, gli stranieri (turisti e immigrati) divertiti da tutto quel baccano. E poco importa se tutta la zona appariva militarizzata, con i checkpoint delle forze dell’ordine che avevano il compito di regolarizzare i flussi di entrata e uscita nell’area del concerto e che controllavano gli spettatori con i metal detector – i fatti di Parigi del novembre scorso hanno cambiato anche il modo in cui si vive un grande evento del genere, e la sensazione è che non si tornerà mai più indietro.
Arriva finalmente la sera e con lei l’inevitabile tributo a Prince da parte di Petra Magoni. La canzone, ovviamente, è Purple Rain (poi ripresa anche da Nina Zilli e Gary Dourdan, l’ex agente Brown di CSI e ora musicista a tempo pieno). Si può dire che l’avremmo evitata volentieri?
Meglio fare un giro in via Carlo Felice, dove i ragazzi del centro sociale Sans Papier hanno montato un soundsystem e stanno facendo ballare tutti con un dj set a base di hip hop e reggaeton.
La musica è tornata a essere il centro di tutto
Quando gli Skunk Anansie salgono sul palco sembrano degli alieni, in termini di potenza, suono e presenza scenica, anche se la folla preferisce di gran lunga Fabrizio Moro e si anima davvero solo quando Max Gazzé esegue i due singoli zumpa zumpa che hanno caratterizzato il suo repertorio più recente.
I siparietti televisivi son ridotti al minimo indispensabile (nota di merito per Luca Barbarossa e La Mario), così come è sparita quasi del tutto la masnada di cinematografari romani che negli anni bui del Concertone era diventata una sorta di tassa impossibile da evadere. La musica è tornata a essere il centro di tutto, e questo è senza dubbio un bene. Il concerto di Piazza San Giovanni è per sua natura istituzionale (lasciamo stare il discorso sui sindacati, grazie) e per questo ha l’obbligo di dovere rappresentare tutto l’arco costituzionale della musica italiana. Ci sono le novità pop come Coez e Thegiornalisti e ci sono i Marlene Kuntz; i Mau Mau e Nada che suona con gli …A Toys Orchestra e la patchanka balcanosa del Dubiosa Kolektiv (un’altra di quelle cose che ha fatto impazzire la piazza e irritato il pubblico a casa).
Ci sono, poi, gli Asian Dub Foundation e il loro crossover anni ’90, e ci sono i Calexico (e quella madeleine incredibile che è la voce di Joey Burns), da soli e in coppia con Vinicio Capossela, autori di una performance che ha mischiato atmosfere Tex-Mex, la musica popolare della valle dell’Ofanto – le famose Canzoni della Cupa – e L’Internazionale (nel senso dell’inno).
Merita una citazione a parte Tullio De Piscopo, che nonostante gli anni che passano e gli acciacchi neanche troppo nascosti si è speso anima e corpo per fare ballare il pubblico come un vero entertainer.
E poi c’è Salmo, il trionfatore assoluto della serata. Quello che sale sul palco accompagnato dal solo Dj Slait e semplicemente fa la sua cosa, nel suo modo, senza fare proclami, lanciare messaggi e abbandonarsi a quel tipo di ritualità che il luogo richiede. Ripeto: la sua cosa, nel suo modo. Venti minuti di solo rap e imprecazioni. Rime che sembrano calci in faccia e bassi che fanno tremare la facciata della basilica. La dimostrazione che si può provare a calcare quel palco senza che il contenitore prenda per forza il sopravvento sul contenuto.
Se bisogna ripartire da qualcosa, bisogna ripartire da quelli come lui. Quelli capaci di coinvolgere la piazza senza concedere nulla.