Al primo Wacken erano in 800, mi dice, Thomas Jensen, uno dei due che nel 1990 hanno avuto l’idea di organizzare un festival metal in uno sperduto pascolo di mucche nel nord della Germania. «Quell’anno abbiamo venduto 100 magliette. Non era male, no?», racconta orgoglioso, mentre giriamo dietro i palchi, «Facevo di tutto, con una mano spillavo la birra, nella tasca destra entravano i soldi e nella sinistra le ricevute. Siamo ancora più o meno gli stessi a fare tutto, siamo solo diventati più professionali, o almeno speriamo. La formula è sostanzialmente la stessa: la gente arriva, beve qualche birra, ascolta qualche band e poi torna a casa».
Iniziamo il secondo giorno con ancora più fango del primo.
Deathless Legacy
In due parole: speed date
Sono una band pisana, hanno vinto le selezioni italiane di una delle cose a cui Thomas Jensen tiene di più: la Metal Battle, un concorso per band emergenti che il Wacken organizza in più di 40 paesi (si vince la strumentazione nuova per l’intera band). Hanno iniziato come band tributo ai Death SS, e ora che hanno iniziato a proporre pezzi propri l’ombra di Steve Sylvester, nei 20 minuti che il Wacken gli offre, ancora si sente molto. Arricchiscono lo spettacolo con elementi teatrali, coreografie d’ispirazione esoteriche e horror, che però, in un festival che sembra popolato da discendenti dei White Walkers e comparse di Mad Max, risultano un po’ anacronistiche. Hanno tutto ciò che serve per andare molto oltre i Death SS, e allora il Wacken gli offrirà lo spazio che si meritano.
Rob Zombie
In due parole: giornata no
All’inizio patisce l’orario – c’è ancora troppa luce per uno spettacolo notturno come il suo – e qualche problema di resa audio, che rende il suono troppo piatto. (e il fatto che vorremmo tutti ballare, ma con il fango che arriva oltre le caviglie è più complicato) Rob Zombie non molla, provoca portando sul palco principale del Wacken persino Sex Machine di James Brown (una chitarra funky, questo sì che è cercare rogne). Gli enormi sub dell’impianto lo aiutano, quando arriva la cassa dritta di Dead City Radio and the New Gods of Supertown il concerto ingrana. A More Human Than Human procede regolare, poi si perde. Una cover (Blitzkrieg Bop dei Ramones), poi un’altra (Enter Sandman dei Metallica) lasciata a metà. Un lungo assolo di chitarra, di quelli che lasciano l’idea che sul palco si stia cercando di far passare il tempo. Mi sposto nel backstage. Rob Zombie ci torna spesso, contrariato. Gira per il palco come se litigasse con qualcuno in cuffia. Qualcosa sul palco non gira per il verso giusto. Peccato, perché sotto invece era un gran divertimento (nota di servizio: sarà stato il freddo, ma, contrariamente alla tradizione, nessuna coppia di seni è stata mostrata a Rob).
Savatage + Trans-Siberian Orchestra
In due parole: You Can’t Do That On Stage Anymore (sì, in effetti sono più di due)
Avete presente il palco di un grosso festival, ad esempio, del Rock in Roma? Qui si raddoppia: i Savatage stasera ne hanno usati due così, affiancati. È l’evento più importante del Wacken Festival: i Savatage che tornano sul palco insieme per la prima volta dal 2002. Il tempo passato si vede soprattutto su Jon Oliva, che ha sempre più chili e una voce sempre più screziata. Canta e suona le tastiere dall’alto della scalinata, di fianco alla batteria (finalmente una batteria che sembra un’astronave, come impone il genere). Ogni tanto il più giovane Zak Stevens entra e lo sostituisce alla voce – confronto impietoso: Oliva è affaticato, ma ha un carattere che molti altri cantanti se lo scordano. A un certo punto il chitarrista Al Pitrelli scompare. Riappare alla canzone successiva, quando si accende il palco a fianco, tra fiamme, giochi pirotecnici e un’alluvione di scale musicali.
È la Trans-Siberian Orchestra, la reincarnazione dei Savatage in chiave spettacolare: archi, violinisti solisti, due tastieristi, continui cambi alla voce, otto coriste otto che ballano sincronizzate, giochi di laser e di fuoco. Ed è subito Eurovision. Dopo qualche minuto i due palchi restano attivi in sincronia, i musicisti dei Savatage passano da uno all’altro in base all’arrangiamento. Siamo nel sogno erotico di un metallaro: i classici dei Savatage (molto da Dead Winter Dead) si mischiano all’Inno alla Gioia di Beethoven e ai Carmina Burana (!). I Savatage di qualche minuto prima, che avrebbero dovuto essere celebrati (è questo che si voleva, no?) risultano un fatto del passato, di quando non c’era YouTube (2005) o l’iPhone (2007). Si vede tutta la distanza che c’è: niente chitarre con castelli in tempesta aerografati, niente lunghi assoli con il palco immobile. Qui si cavalca con lunghi stumentali, ma sul palco tutto è in movimento, c’è sempre qualcosa che amplifica il coinvolgimento. A costo di attirarmi una fatwa lo dico: è la cosa più vicina a una grossa produzione pop che si sia mai vista su un palco del genere. È Broadway Metal. Quinta di Beethoven, fuochi d’artificio e si finisce. Imponente.
Miglior nome di band del giorno: Tears for Beers (tedeschi, è ovvio).
Noi torniamo a casa, ma vogliamo dirvi che venerdì suonano Opeth, Sepultura, Black Label Society, Queensryche, Dream Theater, In Flames, Stratovarius, Angra.
E sabato suonano Obituary, Cradle of Filth, Biohazard, Cannibal Corpse e Sabaton.
Perché è sempre Sabaton.