Così come l’opulenza di metà anni ’70 ci ha dato il punk, e il frullatore post-grunge di fine millennio i TV On The Radio, gli Yeah Yeah Yeahs, i White Stripes e gli Strokes, sembra che dietro al pop glitterato degli ultimi anni stia nascendo qualcosa di nuovo. Qualcosa di grezzo. L’avete già sentito nei dischi delle nuove donne dell’indie, o nel Southern rock di tante piccole band americane. Con i Greta Van Fleet e gli Struts è – sorprendentemente – nella sua forma più concentrata: il classic rock. Uno stile che spesso raccontiamo come se fosse ormai irrilevante, fuori luogo, ma che non scompare mai del tutto.
I Greta Van Fleet sembrano saltati fuori direttamente dalla testa di un critico rock del 1975. Tre fratelli e un vecchio amico, arrivano da una piccola cittadina vicino a Saginaw, in Michigan, e si presentano come uno spudorato riciclo dei Led Zeppelin, con un frontman che forse ha ascoltato 2112 dei Rush una o duecento volte di troppo. Sono gli ultimi arrivati nella famiglia delle hair metal bands, postmoderni come i White Tripes, provocatori come gli Spinal Tap. Quando è uscito School of Rock erano ancora all’asilo, e probabilmente nessuno di loro si è mai preoccupato troppo della somiglianza con il timbro di Geddy Lee – evidentemente, la voce di Josh Kiszka gli sarà sembrata una figata.
C’è qualcosa di ridicolo in tutto questo. Ma anche un’ingenuità affascinante, una determinazione retro-feticista. E i ragazzi sanno suonare. Age of Man è prog rock da accendini alzati. Cold Wind e When The Curtain Falls ostentano lo stile con cui si facevano notare agli inizi. L’urlo di Lover Leaver evoca il finale di Whole Lotta Love, anche se invece di scendere va in salita.
I testi potrebbero aiutarli a liberarsi di questo effetto nostalgia, un po’ come ha fatto Amy Winehouse con l’eredità Motown. Ma di scrittura, qui, ce n’è poca. In You’re the One, una serenata per una “cattiva” ragazza, “Young and pretty” fa rima con “ain’t that a pity”. Persino i riferimenti alla droga suonano datati. (NB: Negli Stati Uniti l’Obetrol è stato sostituito dall’Adderall a metà degli anni ’90). In Anthem si chiedono: “Where is the music / tune to free the soul / a simple lyric to unite us all?”, ma non trovano una risposta. Se riusciranno a digerire tutte le loro influenze, forse un giorno ce la faranno.
Gli Struts, dall’UK con furore, sono a capo di un circuito revival. Nel 2014, dopo appena due anni di carriera, hanno aperto gli Stones a Parigi: non avevano nemmeno pubblicato il primo album, Everybody Wants, un frullato di brani teatrali, trovate glam-rock e lagne pop-punk di una band in vena di scherzi ma comunque determinata ad avere successo. Il frontman Luke Spiller – persino il nome suona arrogante – è un misto tra Freddie Mercury, Noel Gallagher e Julian Casablancas, e probabilmente non esiste un brano con i cori “botta e risposta” – alla We Will Rock You, per intenderci – che non lo faccia impazzire. Kiss This è il primo successo della band, e il secondo LP conferma che forse ignorare gli ultimi 40 anni di pop non sia l’approccio migliore.
Spiller canta frasi a effetto come un Henny Youngman del rock ’n’ roll: “Hey You / Don’t you know who I think I am?!” (in Primadonna Like Me). Qualche volta riesce anche a essere sincero, come in Ashes (Part 2), uno strano incrocio tra Bat Out of Hell e i Maroon 5 in versione hair metal. Body Talks è la Kiss This di quest’album, un inno over the top che funziona al primo ascolto e diventa irritante dopo i successivi. La ricetta è semplice: una parte di Bo Diddley, due parti di Motley Crue, a cui va aggiunto qualche punto extra per il remix con Kesha – è lei la vera regina del retro-feticismo classic rock, anche quando fa solo una comparsata. Per fortuna i ragazzi hanno avuto la buona educazione di farla sedere sul trono.