Rolling Stone Italia

Speciale anni ’90: la vita breve e la morte violenta di Tupac

Lesane Parish Crooks era il vero nome di Tupac Amaru Shakur, nato a New York il 16 giugno 1971 e ucciso il 13 settembre 1996
Lesane Parish Crooks era il vero nome di Tupac Amaru Shakur, nato aNewYorkil16 giugno 1971 e ucciso il 13 settembre 1996.

Lesane Parish Crooks era il vero nome di Tupac Amaru Shakur, nato aNewYorkil16 giugno 1971 e ucciso il 13 settembre 1996.

Articolo pubblicato su Rolling Stone USA il 31 ottobre 1996

Non so se piangere Tupac Shakur o se imprecare contro tutte le circostanze terribili – compreso il suo temperamento autodistruttivo – che hanno portato a questa fine senza senso. Una cosa la so comunque: qualsiasi sia stata la causa, l’assassinio di Tupac, all’età di 25 anni, ci ha portato via una delle più talentuose e trascinanti voci degli ultimi anni. Lui è stato così importante per il suo pubblico tanto quanto Kurt Cobain lo è stato per il suo. Tupac parlava a, e per, coloro che erano cresciuti in realtà dure – realtà che la cultura mainstream e i media erano riluttanti a capire o a rispettare. La sua morte ha lasciato i fan con una doppia sensazione di dolore: da una parte la perdita di un simbolo molto stimato e dall’altra il rimpianto per il lavoro geniale che avrebbe potuto fare.

Certamente Shakur è stato tra i più ingegnosi e appassionati rapper della sua generazione, spesso mettendo a confronto i suoi toni oscuri e le sue rime intermittenti con basi intelligenti e cullanti, conquistando così un ruolo memorabile sia per i contorni melodici che per la verve ritmica. In più, i suoi quattro album – 2Pacalypse Now, Strictly 4 My N.I.G.G.A.Z., Me Against the World e All Eyez on Me – hanno trattato tutti i temi del rap e tutte le emozioni possibili e immaginabili.

Nei primi due album si possono trovare momenti di una tenerezza ed empatia non comuni (per esempio i ritratti femminili di Brenda’s Got a Baby e Keep Ya Head Up), oppure acute osservazioni politiche e sociali (Trapped, Soulja’s Story e I Don’t Give a Fuck) e poi dichiarazioni di forza nero-contro-nero e brutalità pura (gli inni di vita dura Last Wordz e 5 Deadly Venomz). E ciò che ha reso questo mix così notevole era anche il fatto di sembrare così credibile. Shakur riusciva a cantare nel pieno rispetto delle donne e subito dopo fare inni sulle bitches e le prostitute, o ancora vantarsi della sua abilità da gangster e poi condannare proprio quell’atteggiamento in un’altra traccia, e sempre trasmettendo fede totale in ogni singola strofa declamata.

Questo lo rendeva un uomo confuso? Sì, come minimo, verrebbe da dire. Ma Shakur era anche un uomo disposto ad ammettere e a esaminare le sue molteplici inclinazioni e io sospetto che questa sua qualità, più di molte altre, è ciò che lo ha reso una voce così fondamentale e empatica per tanti suoi fan.

È stato poi con queste due registrazioni finali – Me Against the World e All Eyez on Me – che Shakur ha realizzato il suo progetto migliore e che durerà nel tempo. I due album sono la dichiarazione migliore di sempre sulla violenza, sul realismo sociale, sul destino già determinato e sul dolore inesorabile, benché sembrino fatti da due sensibilità opposte. Me Against the World (realizzato dopo che qualcuno gli sparò durante una rapina e durante la sua detenzione in prigione per abusi sessuali a una donna) rappresenta il momento in cui Shakur si fermò per esaminare tutta la sua vita complicata e violenta e per misurarsi non solo con i motivi per cui lui stesso ne era complice, ma anche per capire come le sue azioni avessero avvelenato il mondo intorno a lui.

In All Eyez On Me, pubblicato un anno dopo su Death Row Records, Shakur ha tirato fuori tutto il suo lato oscuro come mai prima e lo ha fatto brillantemente. Quindi, Eyez è uno degli album più creativi dal punto di vista melodico e testuale che il rap abbia mai prodotto, e anche uno dei più impetuosi. Canzoni come California Love e Can’t C Me sono ricche di una bellezza assoluta ed esuberante, così come anche pezzi più pericolosi e minacciosi (Heartz of Men, 2 of Amerikaz Most Wanted, Life Goes On, Only God Can Judge Me, Got My Mind Made Up) mostrano una superficie brillante che nasconde un cuore duro di pietra.

Ma la canzone più potente e la più vivace del progetto Eyez – e anche di tutta la carriera di Shakur – appare sul lato B del singolo California Love: è un pezzo chiamato Hit ‘Em Up. Secondo molti rappresentanti del mondo del rap, la canzone è un attacco diretto soprattutto a Sean “Puffy” Combs della Bad Boy Label e nello specifico a Notorius B.I.G., che registra per l’etichetta. Nell’ultimo paio di anni, queste figure erano diventate arci-nemiche di Marion “Suge” Knight, proprietario e cofondatore della Death Row Records, al punto che Shakur aveva dichiarato una volta che lui sospettava che loro fossero coinvolti nella sparatoria del 1994.

Come risultato, Hit ‘Em Up era ben più di una canzone: era il gesto di vendetta e di avvertimento di Shakur. Per esempio, “Mi sono fottuto la tua bitch, grasso motherfucker”, rivolto a Biggie Small appena inizia la canzone, riferendosi a un pettegolezzo riguardante la moglie di B.I.G. e Shakur. Ma questo sfoggio non è niente in confronto a quello che segue: “Chi mi ha sparato?”, urla, e poi continua: “Ma voi teppisti non avete finito”. Un minuto dopo Shakur alza il suo livello di rabbia di un paio di gradi: “Vuoi fotterci, tu, piccolo motherfucker?”, “Vi ammazzeremo tutti, motherfuckers” e via avanti così.

In tutti questi anni di ascolti di musica pop, io non ho mai sentito niente che possa togliere il fiato più della performance di Tupac Shakur con questa canzone. Contiene una dose talmente abbondante di rabbia e aggressività da far impallidire qualsiasi corrispettivo nel punk. Di più: Hit ‘Em Up ha superato il confine. Non siamo più nel territorio di arte e metafore, bensì in piena vita reale. A un primo ascolto, potresti pensare che Shakur stia dicendo ai suoi nemici: “Noi vi uccideremo dal punto di vista commerciale”. Ma ascoltando gli ultimi sorprendenti 30 secondi del pezzo, è come se Shakur stesse dicendo: “Eccomi qui, sono il tuo nemico e il tuo obiettivo. Vieni e prendimi, o guardami prima”.



Ecco: un uomo canta di morte e assassinio, e poi viene ammazzato. C’è una gran tentazione da parte di tutti di vedere questo fatto come conseguenza dell’altro. E nel caso di Tupac Shakur ci sono diversi elementi per poter pensare una cosa del genere: lui ha fatto più di una canzone sulla violenza. Come Shakur stesso disse una volta, con parole di cui poi si è appropriato il Times per il titolo del pezzo che parlava proprio della sua morte: “What goes ‘round, come ‘round” (che è un po’ come dire: “chi la fa l’aspetti”, “si raccoglie quello che si semina”, “tutto torna, alla fine”, ndr). Ma io credo che sarebbe un gran disservizio liquidare il lavoro e la vita di Shakur con una veloce e superficiale somma di titoli. È come bruciarlo, senza averlo ascoltato prima.

È vero, certo, che alcune figure nel mondo del rap hanno portato la loro retorica infiammata e le loro pose violente a un insano livello. Morte e crudeltà. È ancora più triste e orribile per i testimoni vedere una rivalità così letale tra alcuni talenti così innovativi – specialmente quando questi artisti e produttori dividono una sorta di prospettiva comune che dovrebbe unirli. Le etichette Death Row e Bad Boy potrebbero avere un vero impatto positivo sulla vita politica dei neri in America – ma questo non può accadere se le aziende nascondono i problemi reali delle componenti black.

Allo stesso tempo, non c’è niente di significativo che si possa ottenere nel fare censura all’hardcore rap, o almeno questa direzione non offre soluzioni reali a ciò che di meglio o di peggio dovrebbe significare il rap.
Per questo motivo, una tale linea di censura avrebbe solamente limitato il contributo del rap alla cultura pop. Il rap ha iniziato a dar voce alla coscienza black nei tardi anni ’70 e, maturando poi nella più ampia forma artistica che è l’hip hop, è anche diventato simbolo vitale delle conquiste black.

il rap ha dato voce a quelle realtà che nessun’altra forma d’arte era in grado di raccontare

In questo processo, il rap ha iniziato a raccontare e a rivelare molte realtà sociali e attitudini che la maggior parte delle altre arti e degli altri media ignoravano costantemente, ovvero il rap ha dato voce a quelle realtà che nessun’altra forma d’arte era in grado di raccontare.

Lavori come Fuck Tha Police e Niggaz4Life degli N.W.A potevano sembrare shockanti agli occhi degli osservatori esterni, ma non avevano certo inventato loro lo scontento di cui si cantava. Neppure Ice-T, Ice Cube o i Geto Boys inventarono la guerra tra bande del ghetto di cui rappavano nelle loro rime.

Queste situazioni esistevano molto prima che il rap conquistasse il suo fascino pop (anche molto prima delle rivolte esplosive di Los Angeles del 1992) e, se anche il rap fosse scomparso all’improvviso, queste situazioni avrebbe continuato a esistere lo stesso.

Ciò che disturbava molti rispetto al rap – ed era la colpa che gli veniva maggiormente imputata – era quanto vivamente riuscisse a rappresentare la realtà con testi e voci illuminanti.

Non era piacevole sentire di morti feroci e di degradazioni sessiste – per molti, infatti, il rap rappresentava una minaccia reale. Come una volta un giornalista e scrittore mio amico mi disse, quando gli raccomandai di ascoltare Doggystyle di Snoop Doggy Dogg: «Non compro dischi di gente che vuole uccidermi». Allo stesso tempo era curioso notare come questi fan della musica non si mostrassero altrettanto contrariati quando gruppi rock come i Rolling Stones, i Sex Pistols, i Clash e molti altri cantavano di assassini, violenze, rabbia e rovina culturale. Tupac Shakur, come molti altri rapper, parlava di un mondo nel quale lui aveva vissuto o di cui era stato testimone, e la differenza rispetto alla maggior parte degli artisti pop era proprio questa: nel suo caso non c’era poi una grande distanza tra le sue rime e la vita vissuta.

A volte, Shakur vedeva chiaramente le cause del suo dolore e della sua rabbia, e sperava di non venir sopraffatto da tutto questo, né di farsi condizionare. E troppo spesso si buttava in mezzo a situazioni che aggravavano soltanto la sua posizione: era rimasto coinvolto in due sparatorie, numerosi attacchi verbali e diverse liti; ed era stato anche condannato per abusi sessuali. Inoltre, aveva senza dubbio fatto suo l’ideale che i rapper veri, per essere credibili, dovevano vivere in prima persona le situazioni pericolose di cui rappavano nei pezzi.

Alla fine, forse, l’errore più grande di Shakur fu di vedere in uomini e donne con un background simile al suo i suoi più grandi nemici.

L’errore più grande di Shakur fu di vedere in uomini e donne con un background simile al suo i suoi più grandi nemici

Ma ascoltate Shakur prima di giudicare la sua vita. Sentirete la storia di un uomo che è cresciuto con la sensazione di non essere parte di nessun mondo: di quello dei bianchi certamente no, ma nemmeno di quello dei neri dove era cresciuto. Potrete anche sentire la storia di un uomo dall’intelligenza geniale: il suo dono per le percezioni acute e divertenti, e per le abilità con i testi e le musiche.

E, ovviamente, sentirete anche alcune cose brutte – minacce, parolacce, invettive – che per alcuni erano troppa roba da sopportare. Ma la cosa più importante è che vi metterete in ascolto di un animo travagliato, l’animo di un uomo che è cresciuto circondato da troppo dolore, rancore e perdite da pensare che potesse sopportarle, e superarle, nonostante il suo talento.

Nel caso poi qualcuno volesse liquidare troppo in fretta la realtà di quest’uomo, consideri questo: viviamo in un periodo dove molti dei nostri leader ci stanno dicendo che possiamo essere colpiti da un’altra America – un’America fatta da gente spaventosa, irresponsabile, pigra o che semplicemente ha fatto male i suoi piani; un’America che ha bisogno di ricevere una dura lezione. E così noi li abbiamo eletti perché impartissero a questa gente una dura lezione. Negli anni immediatamente successivi, come risultato delle recenti azioni politiche, una cosa come un milione di bambini sono stati messi in condizione di povertà e di tutto ciò che questo comportava, inclusi gli orribili rifugi destinati a coloro che non hanno speranza. Immaginate quanti Tupac Shakur emergeranno da questa avventura – tutti ragazzini intelligenti che, a dispetto del loro eventuale talento, non saranno in grado di superare tutta la bruttezza della loro gioventù né di battere chi un giorno li farà finire con il sangue sulle mani o sul petto, o tutti e due.

Quindi, “What goes ‘round, come ‘round”. L’ America che stiamo preparando per gli altri è quella che stiamo preparando per noi. E non sarà dall’altra parte della città. Sarà giusto fuori dalle nostre porte.

L’articolo è stato pubblicato su Rolling Stone di luglio/agosto.
Potete leggere l’edizione digitale della rivista,
basta cliccare sulle icone che trovi qui sotto.
Iscriviti