Articolo pubblicato su Rolling Stone US il 7 agosto 1997
Tre mesi dopo l’assassinio di Notorious B.I.G. a Los Angeles, Sean “Puffy” Combs non riesce ancora a togliersi dalla testa quella notte. Diversi mesi prima, in un evento terribilmente analogo, il rivale di Biggie, Tupac Shakur, era stato freddato in una strada della West Coast. Qualcuno ha pensato che Combs o Biggie c’entrassero qualcosa, ma Combs sa qualcosa che nessun altro sa. E anzi, si incupisce solo al ricordo.
Seduto dietro a una scrivania del Daddy’s House, il suo studio di registrazione a Midtwodn Manhattan, Combs ripensa al 1993. All’epoca, stava lanciando la Bad Boy Entertainment, insieme a una manciata di artisti che era ansioso di registrare. In particolare, c’era un giovane rapper di Brooklyn di nome Christopher Wallace. Spacciava crack, ma possedeva un talento straordinario per costruire rime che descrivessero il suo mondo. Due metri per 130 chili, si serviva dello pseudonimo di Biggie Smalls, ma firmava i suoi dischi come Notorious B.I.G. «Aveva una voce così melodica», racconta Combs. «Rappava, ma era talmente orecchiabile da sembrare un tipo di canto. Era anche un poeta brillante, per come combinava le parole fra loro. Aveva una visione così nitida della realtà… Se ti sedevi ad ascoltare un suo disco al buio, ti appariva un intero film davanti agli occhi. E il bello è che Biggie non si annotava mai i testi, li teneva tutti nella testa. Ma c’era un lato di lui che affascinava chiunque. Se ti trovavi con lui in una stanza, non potevi smettere di fissarlo. Era semplicemente unico, per come appariva, si muoveva, camminava, parlava, rappava».
Le storie raccontate da Biggie nel suo album di debutto del 1994, Ready to Die, variano dal grottesco al comico, ma ciò che le colloca su un altro piano rispetto al rap medio è il sorprendente senso di strazio terreno che Biggie ci metteva dentro. Alla fine del disco, il narratore tira le somme della sua vita, rendendosi conto di quanto sia uno spreco violento e doloroso. Dopodiché, mentre sta parlando al telefono con un amico, si spara. A Smalls, proprio come a qualsiasi altro rapper di turno, interessava il pavoneggiarsi, ma sapeva molto bene che le storie descritte nei suoi brani trascendevano qualsiasi orrore. E che, più uno sperimenta o si lascia dietro morte e abissi, più uno perde. All’epoca in cui Combs e Smalls stavano apportando gli ultimi ritocchi all’attesissimo secondo album di Biggie, Life After Death, Shakur era morto. Così come All Eyez on Me di Tupac, l’album di B.I.G. mirava a raccontare storie indelebilmente crude di amore, malizia, sesso e speranza – oltre che a vendere milioni di copie. Non solo, come disco, Life After Death voleva mettere definitivamente fine alla contesa fra West e East Coast. «Voleva che questa merda andasse meglio, amico», racconta Combs. «Quanto era difficile farlo? Immagina: c’è qualcuno che ti dice che si scopa tua moglie e tu stai zitto».
Sia Puffy che Biggie lo sapevano: Life After Death sarebbe diventato il più grande avvenimento delle loro giovani vite. Quella primavera, i due andarono a Los Angeles. Biggie se la spassava, godendosi il clima e consegnando pure un Soul Train Award a Toni Braxton in diretta nazionale. La notte successiva, il 9 marzo, Vibe, Qwest Records e Tanqueray stavano dando una festa al Peterson Automotive Museum, nell’area di mid-Wildshire. Ricorda Combs: «Biggie mi diceva: “Ho finito l’album. Voglio festeggiare con te, andiamo a questa festa di Vibe. Magari incontro della gente, direi loro che voglio fare qualcosa nel cinema”. Questa cosa mi rese fiero, perché parlava come un vero uomo d’affari».
Mentre l’entourage si stava allontanando in macchina dal party – Biggie e Puffy viaggiavano su due auto diverse – alcuni spari risuonarono nell’aria. «Sono corso verso la macchina», dice Combs. «Urlavo: “Dov’è l’ospedale?”. Gli parlavo, lo toccavo. Non sentivo nulla. E, dato che ho visto morire parecchie persone, era come se sapessi già cosa stesse succedendo. È una sensazione che non si può descrivere. Siamo andati all’ospedale a sirene spiegate e ci siamo rimasti per tipo mezz’ora. Poi i dottori sono venuti da noi per darci la notizia. Ero in ginocchio, ho pregato tutto il tempo. Ecco cos’è successo quella notte. Non avevamo litigato con nessuno, nessuna di quelle stronzate è vera».
La domanda pià difficile rimane tuttora: chi ha ucciso Biggie Smalls? Chi Tupac Shakur? E perché? E c’è solo una risposta: chiunque l’abbia fatto, non lo dice. Combs non ha intenzione di impelagarsi su chi o cosa abbia portato alla morte di Smalls: «Non ho una teoria. Sono vicino a risolvere il caso tanto quanto una persona qualsiasi. Ma possiamo dire che l’energia della cosiddetta guerra fra East e West Coast aveva sicuramente a che fare con entrambe le morti. Solo l’energia, ok? Non credo, però, che qualcuno di Death Row abbia ucciso Biggie, né penso che uno di Bad Boy abbia sparato a Tupac».
Ci stringiamo le mani, ci salutiamo e, ancor prima di girarmi per andare via, Puffy sta già parlando al cellulare. C’è parecchio lavoro da fare. Mi giro verso di lui e sono subito colpito da quanto sia afflitto il suo sguardo, nonostante continui a costruire il suo impero. Sono gli occhi di qualcuno che, per quanto abbia guadagnato, ha perso qualcosa che non potrà più riavere in vita sua.